Abbiamo detto addio a Pippo Baudo. Il più grande conduttore della televisione italiana, il padre di Sanremo, l’uomo che “l’ho inventato io” e che quasi sicuramente ha inventato anche te che stai leggendo, se sei finito nel mondo dello spettacolo. Ma no, tranquillo: non è il momento del lutto, della memoria collettiva o di un briciolo di silenzio. È il momento del tuo post. Perché come ha scritto lo scrittore Massimiliano Parente, e che per chi scrive ha avuto ragione da vendere: “È morto Pippo Baudo, ma sui social, come per qualsiasi morto famoso, è sempre più vivo l'ego degli altri, quindi tutti a postare la foto con lui: più che lutto è narcisismo sul cadavere ancora caldo”. È esattamente così. Ogni volta che muore un personaggio pubblico, si attiva la sindrome del selfie commemorativo. Il “ce l’ho anch’io la foto con lui”. L’ansia da prestazione del ricordo personale, anche quando personale non è. Perché diciamocelo: la maggior parte di quelle foto non racconta un legame, racconta un passaggio. Un incontro in camerino, una comparsata, una stretta di mano, un ciao ciao dal palco. Però eccola lì, la foto: postata con l’immancabile caption strappalike, tra il “grazie per tutto quello che ci hai lasciato” e il “sei stato un esempio”.

E tu? Tu sei lì in primo piano. Il morto è sullo sfondo. Pippo Baudo lascia questo mondo e subito fioccano i caroselli digitali. Una fiera della memoria istantanea, come se il lutto avesse senso solo se è esibito. Ma in realtà non è neanche lutto: è branding personale. È status. È: “Guardate, c’ero anch’io”. Si prende il morto e lo si usa come palcoscenico finale per il proprio bisogno di attenzione. E Baudo, che le luci della ribalta le conosceva meglio di tutti, forse avrebbe anche capito questo ultimo atto di narcisismo post-mortem. Ma non è detto che lo avrebbe approvato. Il punto non è impedire a qualcuno di ricordare un gigante come lui. Il punto è: perché non sappiamo più farlo in silenzio? Perché ogni morte di un grande è diventata un pretesto per infilarsi in mezzo? Non si tratta di vietare il dolore, sia chiaro, ma di distinguere il dolore vero dalla recita social. Perché il lutto, quello reale, non ha bisogno di 3000 like o di una foto di te che sorridevi mentre lui lavorava.

