Diremo subito una cosa: l’arte e la cultura non siedono dentro i nostri ministeri, e non accadono nelle rassegne-specchietti per le allodole inventate dalla politica per illudersi di spendere bene una quota dei fondi pubblici. Ciò premesso, diremo anche che Agrigento è stata eletta nuova Capitale della cultura per l’anno 2025, e lo scorso 14 gennaio a Roma è stata presentata in conferenza stampa (occasione che è stata segnata dalla assenza del ministro della cultura Alessandro Giuli e da quella del Presidente della Regione siciliana, Renato Schifani) la programmazione degli eventi e delle molteplici iniziative che costelleranno questo anno “aureo” per il capoluogo siciliano. Per molti l’assenza delle due importanti cariche istituzionali è stata tutto tranne che un caso; al contrario, si pensa che si sia trattato di un segnale di ammonizione, di una presa di distanza con valore non puramente simbolico. Non hanno tardato ad arrivare polemiche e contestazioni, a livello politico e istituzionale, tra scetticismi e indignazioni espressi variamente per i ritardi con cui è stata fatta partire la macchina organizzativa di tutto l’evento, e che hanno interessato la comunicazione (le pagine social dedicate sono ferme, o quasi) così come la individuazione delle sedi ospitanti i diversi appuntamenti, la scelta del (dei) logo (loghi), l’individuazione e realizzazione di efficientamenti infrastrutturali per rispondere alla domanda turistica che ci si aspetta potrebbe favorevolmente interessare il territorio, e si potrebbe continuare. Si potrebbero in effetti evidenziare molte incongruenze, molte miopie, soffermandoci ora sulle evidenti incapacità ed insufficienze amministrative nel gestire una rassegna di tali proporzioni, in una città che più verosimilmente si presenta come un paesotto (in preda allo sbando e al degrado, come accade nella maggior parte delle realtà del nostro meraviglioso e bistrattato meridione), ora sulla possibile carenza di visione e di metodo nella scelta delle proposte e dei temi (pur se naturalmente, nella varietà delle iniziative, emergono diverse mostre e progetti degni di attenzione) ma ripeteremmo le solite solfe già espresse a vario titolo e in fondo finiremmo per elencare noiosamente un programma con pregi e difetti in egual misura che ormai è pubblico ed accessibile a tutti, riducendoci ad una lamentatio sterile e senza sangue. Premettendo che la polemica è uno sport molto in voga nel nostro paese - specie in ambito culturale, settore in cui molti sembrano ritenersi manager di lungo corso in grado di tirare fuori dal cilindro formule esatte per svecchiare un sistema che fatica anche a credere a se stesso - di fronte alla querelle che va in onda un po’ ovunque e che assomiglia in verità già ad un argomento da chiacchiera colta con cui sfoggiare il proprio raffinato e ben riposto sdegno sarebbe più utile forse alzare un po’ gli occhi dal tavolo e porsi quesiti di più ampio respiro, che paiono di gran lunga più sensati, come ad esempio: ha realmente senso istituire capitali della cultura, nel 2025, in una società che della cultura apparentemente sembra non sapere più cosa farsene e che rimane purtroppo, a livello istituzionale, un passatempo per una comunità borghese di plastica e dedita al consumo di tutto, per il solo gusto di credere di stare ben destinando una quota di fondi pubblici, quando occorrerebbe che il nostro paese venisse investito da una rivoluzione culturale che lo riedificasse a partire dalle fondamenta?
Ha senso chiedersi chi e cosa dovrebbe comparire nel programma di Agrigento 2025 quando saranno proprio gli agrigentini a disinteressarsi, se non per l’impatto commerciale che verosimilmente potrebbe dare linfa al paese, di quello che avverrà nella loro città da qui ai prossimi mesi? E soprattutto ha senso quando saranno verosimilmente gli agrigentini giovani, quelli che avranno già lasciato per necessità il proprio territorio, ad essere assenti agli appuntamenti che andranno in scena nella loro terra? Il punto vero di tutta la faccenda è che viviamo in un paese vecchio, che ha perso entusiasmo, dedito agli sprechi ed insopportabilmente moralista, per cui continuare ad intravvedere in queste rassegne annuali una possibilità di risanamento sociale o culturale è pura illusione o velleità, quando si sa che, più verosimilmente, nella migliore delle ipotesi, tutto lo sforzo che viene messo in campo esaurisce il suo raggio di azione in pochi mesi dopo la fine delle manifestazioni per poi lasciare la realtà esattamente identica (o quasi) a come era prima. Lo statalismo culturale nel nostro paese dovrebbe aver già mostrato tutte le sue insufficienze. La cultura e l’arte sono fuori da tutto ciò che riguarda le stanze in cui si declina la presenza dello stato, a ben vedere: non sono più nelle scuole, non sono nelle biblioteche, non siedono sulle poltrone da cui una classe dirigente (anziana) amministra e dirige stancamente i musei, e di certo non sono nelle città esangui del meridione (come talvolta sono anche quelle del settentrione) che si imbellettano quando vengono chiamate a svolgere il ruolo di “capitali culturali”, alla meglio, tirando su i propri cocci per sfoggiare una livrea fittizia per un anno e poi dismetterla e tornare a pasturare le proprie miserie.
La cultura e l’arte sono (in massima parte) esattamente tutte intorno, precisamente nelle stanze, negli studi, nelle gallerie, nei laboratori, sulle scrivanie dei nuovi (colti, preparati e impegnati) filosofi, pittori, scultori, musicisti, poeti, ballerini, registi e fotografi italiani che hanno non più di trentacinque anni. Lì, soprattutto nelle vite dei giovani nuovi artisti e intellettuali del paese, stanno l’arte e la cultura di oggi e di domani. Interessiamoci a loro, finanziamo loro, diamo possibilità, visibilità e lavoro a loro, tagliamo metà dei soldi che arrivano al cinema o alle produzioni televisive e destiniamoli alle accademie, ai conservatori, ai centri di poesia, alle scuole di fotografia. La sola vera proposta per garantire nuova linfa culturale alle nostre città e al sistema paese nel suo intero, che non si esaurisca in uno sforzo onanistico e privo di ricadute reali sulla vita artistica e sociale delle comunità, sarebbe quella di svecchiare e dunque di mandare a casa metà della classe dirigenziale che in Italia siede ai tavoli in cui si decidono le sorti dei musei, dei cinema, della programmazione dei teatri, delle capitali della cultura, e poi istituire comitati con poteri decisionali, di gestione e di governo sui finanziamenti composti da operatori culturali giovani (non più di trentacinque anni) che ripensino complessivamente l’andamento, l’organizzazione, il finanziamento e le strategie in grado di rivoluzionare e smobilitare le energie artistiche del nostro bel paese, senza l’ausilio di vecchi barbosi detentori di qualche residuo scettro proveniente dagli scranni di cattedre universitarie, poltrone o altre forme di investiture stantie che non interessano più veramente al mondo “reale” dell’arte, che ripetiamo, è altrove ed è vivo. Chiediamoci se al nostro futuro, cioè ai giovani, ed in particolare ai giovani dotati di visione morale, filosofica, culturale ed artistica (e non solamente economica, possibilmente) che saranno l’unica vera salvezza per il nostro paese, freghi qualcosa di quali siano e cosa accada ogni anno nelle città elette capitali della cultura, e rispondiamoci. La risposta è no. Sarebbe più sensato ambire a vivere in un paese in cui le capitali della cultura vivano tutto l’anno ogni anno e grazie alla spinta propulsiva (soprattutto) di giovani preparati in grado di immaginare residenze artistiche, borse di studio, festival, luoghi, manifestazioni, progetti realmente dedicati alla cultura e all’arte che siano dotati di qualche significato e sostenibili economicamente, ed in grado di promuovere e rivolgersi a chi realmente vive e fa arte e cultura, nelle proprie vite e non dentro le stanze asettiche dei nostri polverosi ministeri.