Boh, te ne vai così? Sì. Per Emanuele Severino siamo eterni, è una semplificazione, certo, ma il senso è questo: deve essere davvero difficile andarsene sul serio. Guarda quanto c’è qui, nella vita, andarsene è difficile, è complicato, sembra assurdo sia possibile. Non siamo fatti per la morte, ma per vincerla ogni giorno, finché se ne hanno le forze.
Lorenzo Pataro è morto, un poeta e un ragazzo. Classe 1998, come me. Ci conosciamo anni fa, mai visti di persona, due fantasmi che si danno il buongiorno, si scambiano poesie, si criticano. Amava la letteratura commerciale, come me. Mi chiedeva quali libri di Joël Dicker comprare, io rispondevo tutti. Io gli chiedevo quali autori italiani leggere, visto che era sempre così aggiornato. Voleva conoscerli tutti, qualcuno lo ha conosciuto, qualcuno oggi – come Franco Arminio – lo ricorda. Ognuno a suo modo e non c’è un modo sbagliato. Ma credere che questa scomparsa non porti ognuno di noi a interrogarsi, al di là del semplice evento, è ipocrita. Questo Lorenzo non lo merita. E quindi, inevitabilmente, quando muore qualcuno che conosciamo, finiamo per parlare di noi. Vanità? Fate pure, se credete di saper dire cosa è giusto e sbagliato dire quando qualcuno se ne va. Perché io non lo so. Non lo sapevo quando se ne sono andati i miei nonni, quando se ne sono andati amici, conoscenti, persone uguali a me, e non lo imparerò mai.
Ricordo un gioco che facevo con Lorenzo. Ci mandavamo una poesia a testa, una foto senza il nome dell’autore, dovevamo leggere senza pregiudizi e giudicare. Alcune volte mettevamo a confronto poesie di diversi autori, sempre senza rivelare all’altro i nomi, e sceglievamo. Ricordo quando scelsi, tra le candidate, una poesia di Giovani Ibello. Ricordo anche quando scelsi una sua poesia, che per scherzo aveva inserito tra quelle di altri, anche di altri grandi. Credo che abbia apprezzato per un po’ la mia poesia, fin quando ne abbiamo parlato.

Io gli dissi chiaramente cosa credevo non dovesse fare: scrivere per Il Foglio, puntare sui giornali – quando scriveva degli altri era fin troppo buono – o cercare di fare tutte le mosse giuste. Credo di aver parlato male di lui qualche volta, nello stesso modo in cui dicevo a lui ciò che pensavo.
Ci eravamo persi di vista, anzi, persi d’ascolto. Forse qualche messaggio nell’ultimo anno, poco. Qualche gossip poetico magari.
Ha fame, Lorenzo, ma è così gentile, anche quando scrive, che non chiedeva mai davvero niente. Piuttosto si avvicinava, annusava, si faceva vedere. In giro chiedeva foto a tutti, poi chiamava per nome, quando pubblicava le foto, i gradi autori incontrati una sola volta. Narcisismo? Voglia di sembrare amico di chi amico non era? No. Solo e semplice entusiasmo, quello che ti fa pronunciare solo i nomi propri.
Dicevamo, interrogarci. Ieri, prima di sapere la notizia, con Flaminia Colella e Gianfranco Lauretano abbiamo parlato di Mario Luzi in diretta su Instagram. Luzi, poeta dell’interrogazione. Sono solo le domande che contano. Perché? Quando? Come? Chi le giudica di cattivo gusto sa che, in fondo, è ciò che si è chiesto appena saputa la notizia. E il motivo è semplice: quelle domande ne nascondono altre, tra cui: e se accadesse a me?
Cosa vuol dire sparire per sempre, cosa vuol dire non lasciar traccia? Poi mi ricordo che Lorenzo ha scritto poesie, è poeta vero. Lui, che amava la poesia dei suoi amici, Mattia Tarantino e Gabriele Galloni, quando ci siamo sentiti l’ultima volta stava riscoprendo altri poeti, più ariosi. Gli avevo detto: leggi Claudio Damiani, perché poesia è alzare la testa, non guardarsi i piedi mentre si cammina. Mattia e Gabriele, in un certo senso, hanno protetto la sua poesia, che assorbiva tutto con entusiasmo. L’hanno tenuta, il primo realmente, concretamente, il secondo simbolicamente, in una sorta di linea poetica.

È tutto sfocato, quando vieni a sapere queste notizie non le comprendi. Ma nella sfocatura vale la pena di infilare le mani e strappare la paura, il dolore, la tristezza. Ricordo la sua voce negli audio e nelle chiamate, di uno che non è mai troppo sicuro di quello che sta dicendo, che lancia l’esca e aspetta che tu dica qualcosa, così da potersi accodare. Non è vigliaccheria, è modestia. Quella che in queste ore stanno notando in tanti.
Io, dal canto mio, una risposta alla vita l’ho trovata: che i poeti muoiano mentre la poesia resta, di questa verità banale, non me ne faccio niente. Sono i poeti che dovrebbero vivere, le persone. Lui, che mi chiese una perché mi ero convertito, non avrebbe capito questo addio. Con me si professava agnostico. Altri lo conoscono meglio, altri lo piangono di più.
Io di lui sapevo questa insicurezza, verso Dio, verso la poesia, verso il lavoro che avrebbe voluto fare. Gli ho sconsigliato tutto ciò che ho potuto, non credo mi abbia mai dato retta. Eccolo, allora, un po’ di coraggio. Ecco rispuntare quella sua fame gentile. Il cuore di Lorenzo.
