Nei giorni scorsi si è molto parlato dei meccanismi di voto del premio Strega, delle stupefacenti parole del Direttore Petrocchi secondo cui chi pensa che per valutare un libro lo si debba prima leggere sia “un ingenuo”. Tuttavia, questo modo di procedere “per sentito dire” non è esclusivo dell’industria letteraria: il mondo del cinema funziona nello stesso modo. Manca una spudorata conferma come nel caso del Petrocchi, ma è verosimile che pure i giurati del David di Donatello – l’equivalente, per prestigio e tradizione, del premio Strega – non guardino i film in concorso e votino per logiche di appartenenza; ma se per quanto riguarda i lungometraggi siamo nel campo delle ipotesi, per quanto riguarda i cortometraggi possiamo tranquillamente parlare di certezza.
A entrare nella cinquina finalista sono opere riconducibili ai soliti ambienti gestiti dai soliti noti, per esempio il Centro Sperimentale di Cinematografia diretto da Sergio Castellitto
Nota: il mondo dei cortometraggi è un caso interessante e molto specifico. Praticamente sconosciuti al pubblico mainstream, per tutti coloro che di cognome non fanno “Castellitto” il corto è ancora il mezzo principale di accesso all’industria, quello attraverso il quale all’estero i giovani di talento si segnalano - negli USA, da Christopher Nolan in giù, sono innumerevoli i cineasti che hanno cominciato proprio grazie a un corto di successo.
Per emergere, un cortometraggio ha bisogno di una vetrina importante, e il principale premio nel nostro Paese è sicuramente il David di Donatello. Dove però, come nel caso del premio Strega, i cortometraggi “in concorso” sono un numero spropositato - quest’anno 495, come verificabile qui: - cosa che rende impossibile una qualunque valutazione sul merito.
Vedere quasi cinquecento cortometraggi e valutarli equivale a leggere ottanta libri: è un’impresa impossibile, che si giustifica solo se i selezionatori sanno in partenza chi sarà ad essere scelto. E infatti, a entrare nella cinquina finalista sono sempre opere riconducibili, in un modo o nell’altro, ai soliti ambienti gestiti dai soliti noti (primo tra tutti, il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, oggi diretto da Castellitto padre).
Al festival di Cannes il cosiddetto Short Corner è una truffa
C’è da dire che iscriversi a David è, perlomeno, cosa gratuita. Altrove sono più spietati, come ad esempio al festival di Cannes, dove da qualche anno si sono inventati la furbata dello “Short Corner”. Provate a cercare “Cannes short corner” su Google: innumerevoli post lo definiscono senza mezzi termini “una truffa”. Si tratta, sostanzialmente, di un grande “ripescaggio”. Ovvero: visto che il tasso di accettazione di corti nel festival di Cannes è pari allo 0,3% (solo un cortometraggio su trecento, tra quelli iscritti, viene effettivamente selezionato) nel corso degli anni diversi esordienti erano scoraggiati a partecipare, preferendo portare le loro opere altrove o caricandole direttamente sul web (che non ha il prestigio di Cannes, ma ha il pregio di essere gratuito). Ma ecco l’introduzione dello Short Corner, una “sezione parallela” dove tutte le opere scartate dalla selezione ufficiale possono partecipare, attraverso il pagamento di 55 euro.
Sembrerebbe una buona opportunità, se non fosse che lo Short Corner non è un festival: non ha selezione all’ingresso (basta pagare); non si svolge nel Palais des Festival ma in uno scantinato del Marchè du Film, un mercato di diritti di film che si svolge contemporaneamente; non ci sono proiezioni né sale buie, i corti sono caricati su una cinquantina di computer buttati in uno stanzone sotto una squallida luce al neon. Altro che grandeur: è un ritrovo di infelici, un happening di esclusi, e anche se, come nel caso dei libri “proposti” allo Strega, anche per i corti dello Short Corner viene chiarito che in nessun modo gli autori possono presentarsi come “in concorso”, nessuno controlla, e come scrittrici e scrittori mitomani scrivono nelle loro biografie di essere stati “candidati al premio Strega” anche se il loro libro era solo uno degli ottanta proposti, così registi, attrici e attori dello Short corner postano penose foto sui social dai sottoscala della Croisette, mentendo spudoratamente circa la loro partecipazione al festival di Cannes, per ottenere un pomeriggio di gloria tra i loro conoscenti.
Che poi, Cannes non è l’unico esempio che si potrebbe fare. Allargando lo sguardo, è difficile pensare che i grandi festival internazionali (Sundance, Tribeca, Toronto, Berlino e pochi altri) impieghino grosse energie per garantire un’efficace selezione basata sul merito. E allargando ancora di più lo sguardo, dovremmo discutere una buona volta di cosa sia, questo merito, in una forma d’arte scivolosa come il cinema, e il tema risulterebbe spinoso.
L'imbroglio dei finanziamenti al cinema spiegato bene
Ma ciò che separa il caso italiano dal resto del mondo, rappresentando una vera e propria anomalia, è il collegamento tra premi come il David di Donatello e il sistema che permette di accedere ai cosiddetti “contributi selettivi per il cinema e l’audiovisivo”: ovvero, ai soldi pubblici.
Il sistema dei “contributi selettivi” arrivò nel 2016 attraverso la “Nuova Legge Cinema” (n.220/2016 art. 26 e 27) e per dare una parvenza di trasparenza fu introdotto un criterio di assegnazione dei contributi basato su un punteggio: alle opere che fanno richiesta di fondi vengono assegnati dei punti, basati su diversi parametri, per valutarne l’effettiva “qualità artistica”. Al raggiungimento di una certa soglia, l’opera si qualifica per ottenere i soldi.
Gran parte di questi punti viene assegnata in maniera arbitraria (la Commissione del Ministero, i cui membri hanno un’età media di 70 anni, valuta con criteri sconosciuti cose come la “visione del regista” o la “qualità della sceneggiatura”) ma una parte importante viene invece conferita in modo oggettivo, sulla base del cast associato al film in questione. Se in passato il regista (o uno sceneggiatore o un attore) è stato vincitore o finalista di un premio di rilevanza nazionale – i David, appunto – gli vengono automaticamente assegnati i punti che egli porta in dote al progetto
Come avrete intuito, si tratta di un meccanismo tanto diabolico quanto perfetto: il cinema italiano finge di dotarsi di un mezzo trasparente per misurare il valore di un’opera, ma nel farlo utilizza uno strumento, i punti, assegnati in maniera determinante in luoghi (i David di Donatello) dove a vincere sono sempre e solo gli stessi.
Siamo all’amichettismo elevato a legge dello Stato, nel cuore marcescente di un’industria dove se un domani togliessero le agevolazioni statali il 90% delle case di produzione fallirebbe (assieme al 90% dei ristoranti di lusso del quartiere Prati).
Gli organizzatori dei Nastri - Laura Delli Colli e Maurizio Di Rienzo – si congratularono, dicendo che, grazie ai punti, “i produttori ti chiameranno sicuramente”
E a questo proposito posso raccontare un succulento episodio personale.
Nel 2016, grazie a un irripetibile arabesco del destino, il mio cortometraggio Frankie: Italian roulette (la mia tesi di laurea del corso in filmmaking che avevo frequentato a New York, scritto insieme alla leggenda del cinema indie Amos Poe) venne inserito nella cinquina finalista dei Nastri d’Argento, che rispetto ai David sono lievemente più democratici, in quanto presieduti da giornalisti e non da “professionisti del settore”.
A quel punto, anche io avevo i famigerati “punti”! E visto che di Frankie ero co-sceneggiatore, attore e regista ne portavo in dote ben 9. Gli organizzatori dei Nastri - Laura Delli Colli e Maurizio Di Rienzo – si congratularono, dicendo che, grazie ai punti, “i produttori ti chiameranno sicuramente”. Il mio obiettivo era realizzare il film “lungo” tratto dal corto: tuttavia, nei mesi successivi, benché mi dessi da fare facendo la spola tra Milano e Roma, il telefono rimaneva muto.
Poi riuscii ad ottenere un appuntamento con un agente romano molto in vista, un personaggio sopra le righe che mi ricevette in un salone stile Grande Bellezza, con meravigliosa vista sul Tevere. Gli esposi il mio caso, lo stupore per essere ignorato nonostante “i punti” (e tante altre cose: Frankie che aveva partecipato e vinto festival in tutto il mondo, due documentari scritti e girati per Sky Arte, 70 milioni di views sui social co i miei video, eccetera).
L’agente scoppiò in una fragorosa risata. “Ma tu pensi davvero che i punti servano a qualcosa?”
“Dice di no?”
Picchiò la mano sul tavolo. “Ma se li so’ inventati per farse mejo gli affari loro!”.
“Scusi, dottore” domandai esasperato. “Se nemmeno i punti servono, come diamine si fa a entrare nel giro?”.
L’agente allargò le braccia, come davanti alla più grande ovvietà della sua vita.
“Ce devi nasce’!”.
In mezzo alla disperazione del momento, ricordo che pensai a Luciano Liggio, il primo capo dei capi della mafia, noto per la frase “Uomini d’onore, si nasce”. Evidentemente, in Italia per gli uomini di cinema vale lo stesso.
Cinema italiano cosa nostra è.