Pensavo al futuro dell’influencer, immaginando scenari distopici, la fine felice e orwelliana di una elefantiaca presa per i fondelli, che i più dotti chiamerebbero manipolazione comunicativa, gaslighting, ipnosi abbastanza spicciola e finanche idiota ma efficace, stando ai risultati. Il soggetto destinatario - cosiddetto follower – di solito con indole prosaica, ha mangiato tutte le foglie possibili, abboccando all’amo di una pesca miracolosa nel gioco di specchi, a volte cafone. A volte anche. Cafone, nel senso di: sguarnito di discrezione e eleganza. I labbroni debordanti hanno forgiato replicanti con i connotati sovrapponibili, che sono un po’ Joker, un po’ umanoidi sbalzati da un romanzo di Philip Kindred Dick. I labbroni e le influencer? Non è un’equazione onesta?
Torniamo al punto. Il futuro dell’influencer, franate tutte le balle al momento spendibili nel mercato, reindirizzato il pandoro con zucchero rosa nelle migliori delle Rehab, cosa possiamo aggiungere? Prospetto una razza di umani già istruita con disdegno dalle agenzie di comunicazioni più attrezzate. Cioè roba da professionisti. Ecco, parliamo dell’archetipo ‘eroe’ da lanciare su piazza. Eroe tirato su nella contingenza, per cui bisogna intanto individuare la contingenza, poi tirarci fuori l’eroe, il simbolo. Qualcosa che induca al piagnisteo, con trolley zeppi di parolone di demagogia, cipigli pedagogici, frasi da brand del pietismo un tempo amico del dolore, oggi alter ego di un pubblicitario scaltro. Mettiamola così: l’effetto risonante sono i fischi all’Ariston. Tradotto in un pastello: un travet con indosso il tight di un ambasciatore. Cosa vi ispira?
Un palco importante. Una specie di ricatto morale per cui troviamo il simbolo, al centro, illuminato, riverberi di lamé a ricordarci la fitta di una coscienza (artefatta perlopiù, dovuta, non so, congrua al momento) di una qualche tragedia. L’applauso è un passaggio obbligatorio. Il simbolo sul palco importante, suo malgrado, diventa un brand. Un marchio. Diventa qualcosa che compete non più all’ordine della morale e di quella latebra oscura e pudica che detiene la nostra intimità, la nostra purissima consapevolezza; no affatto. Ne vien fuori ammaliziata, suo malgrado, dicevo. Dimostrandosi compartecipe all’intuizione di un broker, il qualcosa intendo, che in origine non biforcava in moralismi sboccati o televisivi, non tuonava invettive patafisiche post patriarcali versus fantomatici sospetti patriarcali, in una immaginaria società patriarcale, con termini estrapolati a pennello nel vademecum delle ovvietà. In origine era soltanto un fatto privato. Bene. Il brand del dolorismo ha individuato i suoi portantini. Qualcuno è credibile, un paio d’ore a esser buoni. Se non fosse che in una istanza brevissima l’esultante platea del portantino del brand si traduce in un auditorio inselvaggito. Dobbiamo riflettere sul perché la platea sgami tutto e subito. Dove sono finiti i babbei che mangiavano tutte le foglie ferragnesche ed epigone? Dove siete finiti? C’è già in corso di definizione, con una scuderia acconciata persino, un catalogo di libri spadellati all’indomani di una tragedia qualsivoglia. Instant book. Un pentolone, dentro cui cuociono gli ingredienti che per l’appunto un tempo si dicevano: contrizioni. Sventure. Tormenti. Fatti indicibili. Il marchio del dolorismo non teme di arrischiare autori neofiti. Gli autori che firmano libri, non definibili, genere: dolorismo. Leggeremo libri sul dolorismo, mangiando popcorn. Inseriremo il segnalibro a pagina venti. Gli influencer del futuro saranno strateghi del dolorismo. Ci insegneranno le tonalità, il twin set da indossare. Il celestino o un colore opaco. Dipende dalla sfiga.