Weekend scoppiettante che offre un livello medio dei singoli più elevato del solito. Azzeccano i brani le tre voci italiane: Francesca Michielin, Fabrizio Moro e Frah Quintale. Soprattutto quest’ultimo, che ci prepara a un nuovo album decisamente intrigante. Nel contingente straniero, in mezzo a un ca**eggiante Justin Bieber e a un tiepido Lewis Capaldi, svettano di gran lunga gli Aerosmith insieme a Yungblud. Pop, melodici, ispirati e molto molto divertenti.
FRANCESCA MICHIELIN feat. PLANET FUNK, È naturale
L’accoppiata che non t’aspetti estrae il coniglietto dal cilindro. Brava Francesca Michielin, che infonde respiro e ambizione a un pezzo in fondo abbastanza semplice, il nuovo “È naturale”. Ad assisterla, in un brano che è un’ode informale alla “joie de vivre”, i redivivi Planet Funk. Un difetto? Forse è troppo corto. Forse avrebbe meritato un momento in più per distendersi ancora. “Si ritorna alla dimensione dell’infanzia, a quando ascoltavo “The illogical consequence” dei Planet Funk con il lettore cd e sognavo di fare la musicista. È incredibile come crescendo ho ritenuto il fatto di “sognare” come qualcosa per ragazzini, quando invece era il motore di tutto”, afferma una Michielin che suona libera e liberata.
FRAH QUINTALE, Lunedì blu
Ad anticipare il nuovo album “Amor proprio” (10 ottobre, per Undamento/Warner Music Italia) Frah Quintale rilascia questo “Lunedì blu”, che è un gioiellino. “Nel brano faccio i conti con la realtà in continuo mutamento e mi domando se le cose che finiscono, non abbiano invece un loro posto dove poter esistere all’infinito”, dice Frah. Un tempo il lunedì era “cinema” (Stadio), oggi è blu ed è una gemma nu-soul in cui anche la produzione di Bruno Belissimo fa il suo figurone. Ritmi compassati, la voce di Frah che evoca un tempo intriso di desiderio e rimpianto calibrando al meglio ogni verso. Classe cristallina.
FABRIZIO MORO, Un mondo di stron*i
It’s stomping Moro, here! Spinge, questo “Un mondo di stron*i”, buon clash electro-rock (con insinuanti venature funk) in cui Moro promette di non essere uno dei tanti stron*i che intasa ‘sto mondo vigliacco. Lo fa con un testo ironico, con il tono giusto, con un brano che tira tira e alla fine ci arriverà senza alcun dubbio ad essere un buon momento di power-pop radiofonico. “Guerrafondai ma pacifisti”, “senza canzoni di Battisti”. Il mondo di stron*i disegnato da Moro è un luogo triste e privo di “visioni”. Lui reagisce, perentorio, pungente e facilmente memorizzabile. Azzeccando il pezzo.
JUSTIN BIEBER, Love song
Ed ecco un estratto da “SWAG II”, album di Justin Bieber più presuntuoso e ca**eggiante, ma non meno divertente, del precedente volume. “Love song”, come vari pezzi dell’ultimo disco, funziona meglio nel più ampio contesto di un album. Così, come canzone in sé, rischia di stampare un punto di domanda stampato su entrambe le orecchie degli ascoltatori. Che si trovano al cospetto di un brano al gusto di demo, un po’ introverso, e che non lascia grandi tracce, se non in veste di funzionale anello di congiunzione fra altri brani. Pur senza esaltare, è comunque prova ennesima di quanto la maturità artistica di Bieber sia stata, per lui, questione urgente. Un fiume di brani, un fiume di idee, buona parte delle quali (volutamente) solo abbozzate e poco sviluppate. Fra cui questa “Love song”.
AEROSMITH/YUNGBLUD, My only angel
Quanto piace la parola “angel” agli Aerosmith. Sarebbe bello contare quante volte ha fatto capolino nel loro ampio catalogo di canzoni. Poco male, se la utilizzano bene. Con questa “My only angel”, tanto per dirne una, la band di Boston tira fuori il pezzo pop più fo**utamente divertente e trascinante che ha firmato nell’ultimo quarto di secolo. Che non è dire granché, in assoluto, perché gli Aerosmith post-“Get a grip” ci hanno fatto spesso mordere le lenzuola dal nervoso. Però se pop devono essere (qui il rock è un pretesto, più che altro; il vestito giusto da regalare al pezzo), meglio che lo siano così. Diretti, ringiovaniti, armonicamente ispirati. Dà una mano Youngblud, giovane cantautore inglese che potrebbe essere il nipote di Steven Tyler.
LEWIS CAPALDI, Something in the heavens
Mancava la tisana nel mazzo di singoli di questo venerdì. Ce la consegna, poco più che tiepida, il buon Lewis Capaldi. Peccato sia al gusto finocchio. Li avrà i suoi estimatori, per carità, la tisana al finocchio. Tuttavia è uno di quei beveroni “più utili che buoni” che uno difficilmente sceglierebbe se non ne avesse, in qualche modo, bisogno. Immaginiamo, ne siamo certi, che ci siano anime che abbiano bisogno anche di questa “Something in the heavens”, ma crediamo che, nonostante Capaldi ci creda parecchio, questo pezzo vada ulteriormente ad affollare la già affollata categoria di “ballad che vogliono essere profonde/intime/epiche nel giro di tre minuti tre ma finiscono per farsi dimenticare dieci secondi dopo che hanno terminato la loro generica corsa”.
