Abbiamo intervistato Franco Maresco, regista (insieme a Daniele Ciprì) di Totò che visse due volte e Il ritorno di Cagliostro, autore che al cinema non ha mai fatto sconti, né dentro né fuori dal set. Il suo sguardo è sempre rimasto lo stesso: feroce, attento. Ora diremmo anche apocalittico. Quando gli abbiamo chiesto dello stato di salute della settima arte italiana, abbiamo capito che il cinema è morto. Maresco lo osserva nel ricordo di ciò che è stato, incapace di ritrovare una sua urgenza espressiva oggi. “Ormai è solo un’industria che replica sé stessa, con operazioni vuote, prive di storia”. E per lui, prodotti come Il Gattopardo targato Netflix non sono che l’ennesima conferma di un’industria sempre più attenta al packaging e meno alla qualità. Ma davvero non c’è più spazio per un'arte libera, disturbante, scomoda? Maresco ci guarda come se la domanda stessa fosse già la risposta. Viene da pensare al fatto che un tempo c’era lo Stato, la Chiesa, la censura che tagliava scene e vietava film. Oggi, invece, che ci sono le macchine e gli algoritmi, come funziona? Ci si autocensura? O come afferma Maresco mancano solo le idee, perché dietro non c'è proprio la complessità?

Franco Maresco. La serie Il Gattopardo è stata stroncata da molti critici, che l’hanno giudicata distante sia dal romanzo che dal film di Visconti. Lei è d’accordo con queste critiche? Cosa ne pensa di questo adattamento Netflix?
Ho visto alcuni frammenti della serie e posso dire che è un’operazione che mette a dura prova lo spettatore. Dopo pochi secondi ti rendi conto che le facce degli attori sono inespressive, prive di storia, vuote. Questo rispecchia un’epoca in cui trionfa la confezione pubblicitaria, un’estetica superficiale senza sostanza. Non è solo una questione generazionale – il fatto che io sia un signore anziano con riferimenti culturali diversi è secondario. Il vero problema è che manca una visione dietro questi progetti, sia politica che culturale. È solo un prodotto ben confezionato, ma senza anima. Per fortuna, come lei mi sta dicendo, a molte persone non è piaciuta.
Qual è l’aspetto che più la fa soffrire in questa rilettura de Il Gattopardo? Quale dimensione manca di più? Quella politica o la rappresentazione della Sicilia dell’epoca?
Dobbiamo prendere la questione più seriamente. Le parlo da siciliano, da palermitano: la Sicilia non è mai stata particolarmente fortunata nel cinema, sebbene abbia avuto straordinari interpreti e registi che hanno cercato di comprenderla e di restituirne la storia. Nel passato ci sono stati esempi alti, come il cinema di Pietro Germi o, in parte, quello di Francesco Rosi. Certo, sono stati tentativi difficili, ma almeno si percepiva una sincerità e un vero impegno da parte dei registi che avevano una autentica curiosità, poi poteva essere restituito in chiave metafisica, come in Cadaveri eccellenti di Rosi, c’era comunque una visione politica e autentica forza culturale. Tutto questo, a un certo punto si è perso nel tempo.
Lei ha parlato di un progressivo impoverimento del cinema sulla Sicilia. A suo avviso, quando è iniziata questa deriva?
Io, da siciliano, ho sempre contestato un certo modo di fare cinema sulla nostra terra. Quando ero più giovane usavo un termine forte: “sciacallaggio”, era quel cinema che viene nella seconda parte degli anni Ottanta. Il film Mery per sempre, che allora non mi piacque affatto, oggi però rivedendolo, ne riconosco una certa dignità. Poi niente, è iniziata una progressiva banalizzazione che ha trionfato. Anche della stessa Sicilia sullo schermo. Con l’avvento della televisione prima e di Internet poi, questa deriva si è aggravata. Si è passati alle fiction, che hanno reso tutto ancora più superficiale.
Ma non è stato sempre così?
Certo, anche in passato c’erano critiche, per esempio verso i film di Damiano Damiani, ma almeno lì c’era grande mestiere, grandi attori e un intento preciso, che fosse divulgativo, di conoscenza. Ce ne fossero oggi di autori del genere. Adesso, invece, manca completamente un’idea forte. E allora io le chiedo: perché nessuno fa un film su Danilo Dolci? La lotta dei contadini, l'uomo che fece diventare quell’area di Partinico una capitale del mondo, veniva chiamato il Gandhi siciliano... Perché non lo si ricorda dal centenario della nascita? Forse perché era un personaggio scomodo? Si faccia una domanda anziché parlare de Il Gattopardo.
Ok, ma Visconti chi era, ce lo spieghi lei.
Un grande regista che aveva lavorato con Renoir e intellettuale, aristocratico, un comunista. Ha cercato di cogliere qualcosa, una riflessione sulla Sicilia di uno scrittore reazionario e dietro la grande estetica del film c’è un signore che conosce Thomas Mann, tutto questo arriva. Cosa può arrivare in una cosa come quella della serie? Basta vederne cinque secondi per dire “non l’ho visto e non mi piace”.

Cos’era e cos’è Il Gattopardo? Che potenza ha?
Il Gattopardo è una riflessione continua, lo puoi contestare, io ho conosciuto intellettuali, tra questi Letizia Battaglia, con la quale ho lavorato più volte, che ad esempio non ne voleva sentire parlare di quest’opera per lei reazionaria. C’erano problematiche forti. La Sicilia è una terra che da anni per quanto riguarda il cinema e la televisione è banalizzata, di mafia non si parla praticamente più. Ho visto solo la prima parte di Iddu e poi mi sono fermato.
Ma oggi rispetto a ieri cosa è davvero cambiato?
A differenza di cinquant’anni fa in un mondo sicuramente diverso c’era più paura, più pudore a fare cose brutte, c’erano grandi critici, con giudizi discutibili, opinabili certo, ma in generale esisteva un senso di pudore, ci si vergognava a fare certe cose. La verità è che c’è quello che io chiamo “Camillerismo”.
Cioè?
Quest’anno è il centenario di Andrea Camilleri, un uomo che mi ha sempre fatto simpatia. È stato un ottimo conversatore, affabulatore straordinario nel raccontare la letteratura siciliana, ma non è stato un grande scrittore e non è stato un innovatore della lingua. Se io le faccio il nome di Franco Scaldati non sa chi è, uno dei grandi poeti della seconda metà del Novecento, un drammaturgo che conosciamo in diecimila in Italia. Lui è un innovatore della lingua ma non può esserlo, perché è ostico. Camilleri invece va a cogliere la medietà di questo Paese, gli insegnanti del liceo. È rassicurante.
Ma che cos’è quindi il “Camillerismo” ?
Non è Camilleri, ma ciò che deriva da Camilleri, le fiction, questa visione cartolinesca, che deriva dal folklore Montalbano. Questo si chiama “Camillerismo”, per quanto appunto lui fosse una persona colta e simpatica.


In generale lei parla di una mancanza di conoscenza delle cose, ma a cosa è dovuta?
Anche alla tecnologia. Ormai tutto è delegato ai cellulari e ai computer, le cose non sono vissute, non sono studiate. Nessuno ha più pazienza di leggere I miserabili di Hugo o le lunghe digressioni di Moby Dick. Non c’è il tempo, la pazienza, la complessità. Anche in Francia, una rivista letteraria ha riportato che i lettori trovano Madame Bovary “una noia mortale”.
Eppure, nei festival oggi si raccontano ancora storie del passato. Perché non riusciamo più a rappresentare il presente?
Perché il presente non dice niente. Non c’è la capacità di interpretarlo. Prendiamo Salvatore Giuliano di Francesco Rosi: quando uscì negli anni Sessanta, ricostruiva fatti di dieci anni prima con una lettura politica significativa. Oggi invece, nell’epoca dell’intelligenza artificiale e della sovrabbondanza di immagini, tutto questo cancella il senso stesso di fare cinema. Miliardi di immagini ovunque hanno depotenziato tutto. Viene comodo ripescare storie del passato con una banalizzazione agghiacciante, devi semplificare tutto per un pubblico con un livello di attenzione pari allo zero.
Quindi la banalizzazione è inevitabile? Centra anche una certa forma di censura più forte rispetto al passato?
Non parlerei di censura, ma di svuotamento di senso. Parlare di censura in un’epoca in cui vede trionfare le immagini. Viviamo in un mondo in cui le immagini mostrano qualsiasi cosa: dalla morte in tutte le sue forme ai ragazzini che si riprendono mentre si suicidano o commettono crimini. Non ci sono più barriere etiche, siamo arrivati a un punto di non ritorno.
E il ruolo dell’informazione in tutto questo?
Non ha più senso. Mi dispiace dirlo, ma oggi fare il vostro mestiere è inutile. Non c’è più quella tensione morale, quella necessità di dire qualcosa. Si ponga una domanda. Se tutti sono autori, scrittori, registi, qual è la necessità di scrivere un libro o fare un film?
Allora non c’è speranza?
Una volta, il critico cinematografico Alberto Farassino mi chiese: “Se hai una visione così apocalittica, qual è la speranza?”. Io risposi: “Il meteorite.” Perché l’unica speranza è che qualcosa ci elimini, come accadde ai dinosauri. Purtroppo, la brutta notizia è che oggi il meteorite possono deviarlo. L’ultima speranza è che l’intelligenza artificiale elimini l’uomo.
