Il rock in Italia è femmina? Lei è mamma, è speaker in radio, ed è cantante. Si chiama Alteria. Se accendete Virgin Radio, una mattina a caso durante la settimana, la voce è la sua. Dalle 9 alle 11, la trasmissione è Morning Glory. Stefania Bianchi, così all'anagrafe, adesso ha deciso di buttare fuori un nuovo disco, il terzo che scrive in italiano, il 21 di marzo. Inizio di primavera, tempo di fioriture, ripartenza e rinascita. L'album si chiama Nel fiore dei tuoi danni. Il discorso torna anche perché, come ci ha raccontato in questa intervista, non vede l'ora di tornare a sudare sui palchi. Il tour parte lo stesso giorno, e attraverserà tutta l'Italia. Alteria, in passato, ha avuto le palle di aprire i concerti di band come Aerosmith, Red Hot Chili Peppers, Litfiba, e se c'è una cosa che abbiamo capito da questa intervista è che ha ancora voglia di spaccare tutto. Ma abbiamo parlato anche di testi, trap, autotune, rabbia, emozioni, horror rock, Madonna, Rose Villain e Maneskin. Del rock in Italia, soprattutto femminile, e di Eurovision. Andiamo!

Parafrasando Caparezza, il quarto album è il più difficile nella carriera di un'artista?
È il quarto album, ma ti dico la verità: per me è il terzo, nel senso che è il mio terzo album in italiano. Il primo era in inglese quindi, non so perché, ma lo conto in modo diverso. Com'è stato? Sarò onesta, è stato complicato. Soprattutto all’inizio: sembra una stupidata ma il lockdown, l'interruzione dei concerti e il fatto che mi fossi messa un po’ in stand-by hanno reso tutto più difficile. Riprendere a scrivere non è stato automatico, ma sentivo di avere questo desiderio. Ho dovuto forzare un po’ all’inizio, poi per fortuna mi sono ricordata come si fa e, col senno di poi, sono contenta.
Sei andata un po’ controcorrente: durante il lockdown tutti si sono improvvisati artisti, mentre tu hai avuto un momento di riflessione.
Sai cosa? Durante il lockdown, con un tempismo invidiabile e un po’ sfigato, sono uscita con il mio secondo album. Ovviamente l'album ha vissuto quel periodo drammatico senza potersi sfogare nei live, senza concerti, ed è stata una bella botta.
Non l’hai nemmeno suonato sui balconi, come facevano tutti?
In effetti no, ma poteva essere una soluzione.
Parlando di testi, invece, a cosa ti sei ispirata? Mi sembra che tu racconti molto la quotidianità, i tuoi sentimenti.
Sì, assolutamente. Tutto il disco prende spunto da esperienze viste, sentite, vissute da me. Non ti nego che mi piacerebbe, un giorno, saper scrivere anche della società o raccontare storie diverse, perché credo che sia il vero switch per chi vuole definirsi cantautore. È importante. Mi ci sto avvicinando, ma non ci sono ancora arrivata. Con questo album avevo ancora bisogno di esplorare il mio mondo interiore.
Come ti accorgi che una storia vale la pena di essere scritta?
Guarda, tocchi un tasto fondamentale. Io sono dell’idea che, se non si ha niente da dire, è meglio stare zitti. Soprattutto in un periodo storico in cui tutti sentono il bisogno di esprimersi. Non saprei spiegarti, ma per me è una sorta di urgenza fisica. Ci sono momenti in cui sento i chakra aperti, sono più sensibile a tutto ed è lì che scatta la voglia di scrivere. Quando sento quella necessità, quella spinta, allora capisco che è il momento giusto.
Allargando un po’ il discorso: cosa pensi delle polemiche sui testi violenti e sessisti, soprattutto nel rap? È solo una questione estetica o anche morale?
Una questione estetica, dici? No, per me è una questione morale. È anche una questione di buon gusto. Tornando al discorso del non avere niente da dire forse sono un po’ estrema, ma se l’unico appiglio è la brutalizzazione di certi temi, l’offesa, la volgarità, la trasgressione fine a sé stessa, allora no. Per me è una questione di morale e di buon gusto. Se l’estetica musicale è questa, allora, sarò anche old school ma no, grazie. Certo, anche nel rock classico ci sono stati testi discutibili, però col tempo si cresce, si evolve.
Alla fine questi testi sembrano tutti uguali, forse proprio per questo sono ancora più violenti?
Non ne parlo per sentito dire, ma per esperienza diretta. Ho una figlia di 18 anni e, durante le medie, mi ha fatto ascoltare un sacco di questa roba. Ho sentito con le mie orecchie e ti dico: no, proprio no. Poi anch’io ho i miei scheletri nell’armadio, ma erano altri: techno, dance, quella roba lì.
Hai accennato ai testi del rock. Prendiamo i Misfits, con i loro testi horror tipo “Mamma, posso uscire ad ammazzare qualcuno?”. Era violenza o creatività?
Diciamo che quel tipo di testi è più assimilabile a un film dell’orrore in chiave musicale. Mi viene in mente anche Alice Cooper, che sul palco finge di tagliarsi la testa o fa horror rock. Ci sta. Ma è ben diverso dal dire “mi scopo la mia puttana” o quelle altre frasi che conosciamo bene nel mondo della trap. Secondo me c’è una bella differenza.

Tornando al tuo disco: musicalmente cosa ci dobbiamo apettare?
Musicalmente è un album, molto variegato. Non è diviso in lato A e lato B ma potrebbe anche sembrare, perché ha due anime: una più rock, potente, energica, quella che mi accompagna da quando ho 16 anni, poi una più introspettiva, legata al cantautorato e ai testi. Crescendo, ho sentito sempre più il bisogno di esplorare questo mondo, e alcuni brani si prestano a un’atmosfera più delicata e riflessiva. Ci sono anche pezzi unplugged, quindi direi che è un disco con tante sfaccettature.
Con la maturità si perde la rabbia?
I sentimenti sono tanti, e il vissuto personale di ognuno fa emergere alcuni più di altri. Il disco precedente raccontava della mia separazione, del trasloco, della mia vita da donna sola. Era un album molto rabbioso, ma anche malinconico. In questo, invece, il sentimento predominante è la rivalsa, ma verso me stessa: la voglia di andare oltre, come dice il primo singolo che ho scelto. È un pezzo carico, che esprime il desiderio di tornare sul palco e portare avanti il mio sogno di cantante.
E ho visto che farai anche un bel tour, giusto?
Sì, sono contenta. Non è scontato trovare spazio in Italia con la musica rock, quindi mi sento davvero fortunata. Per ora abbiamo una decina di date confermate e il calendario è ancora in aggiornamento, quindi c’è entusiasmo.
Oggi, per un artista, contano ancora i live o ormai sono più importanti gli stream?
Purtroppo temo che siano più importanti gli stream. Però dipende anche da quale campionato giochi. Nel mio caso, nel mondo del rock, in una realtà di media grandezza e non ancora in Serie A, e lo dico senza sminuirmi, ma con consapevolezza, il live è fondamentale. È essenziale per consolidare una fanbase e costruire un rapporto autentico con il pubblico. Gli stream forse contano di più per il pop e il rap.
Tant’è che poi alcuni devono fare i finti sold out, perché ai concerti non ci va nessuno.
Guarda, non lo so, anche perché i primi in classifica per streaming non li vado mai a vedere dal vivo. Alla fine, preferisco chi mi trasmette qualcosa di autentico. Tipo ieri sono andata a sentire il Teatro degli Orrori, che adoro.
Ho visto la tua storia su Instagram. Anche io li adoro. Domanda personale: com’è Capovilla dal vivo?
Io non faccio testo perché lo amo. Si è difeso bene! Il suo essere a tratti impreciso è parte del suo personaggio, lo rende ancora più autentico. Nel mio nuovo disco c’è un brano che si intitola Personalissima Rivolta ed è, più che un tributo a Pierpaolo Capovilla, un vero omaggio. Ho proprio ripreso il suo stile di cantato, quel modo di narrare sulle strofe, pensando a lui e al Teatro degli Orrori. Quando ho scritto il pezzo, loro avevano appena annunciato la reunion, e questa cosa mi ha ispirata tantissimo.
Come vedi la scena rock in Italia?
Questa domanda me la fanno da tutta la vita, e immagino che anche tu te la sia posta più volte. Me la sento fare da quando avevo vent’anni, e ogni volta la risposta è la stessa: il rock non è morto, anche se a volte sembra vivere di alti e bassi. In questo momento, forse, siamo al minimo storico. Però, per restare in tema Teatro degli Orrori, ieri l’Alcatraz era sold out. Questo dimostra che esiste ancora un sottobosco di appassionati. Ci sono stati anche episodi importanti nel mainstream, come i Måneskin, che hanno riportato attenzione sulla musica suonata. Io sono molto vicina all’ambiente delle scuole di musica e vedo tante ragazze che prendono in mano strumenti come il basso, tanti giovani che si avvicinano al rock. Stamattina ero in radio e ho passato il nuovo singolo di Machine Gun Kelly, e noto proprio un ritorno a quell’estetica del rocker, con la chitarra elettrica in primo piano. Chissà, magari il 2025-26 ci porterà ancora di più in quella direzione.

Quindi dici che i Måneskin hanno avuto un impatto positivo, almeno sulla musica suonata, al di là che sia rock o super pop?
Per me sì. Io non faccio parte di quelli che dicono “Ah no, non sono rock!”. Ognuno è libero di suonare quello che vuole, poi sono gli altri a mettere le etichette. Non credo che loro abbiano mai sbandierato di essere dei puristi del rock. Secondo me hanno fatto anche cose fighe, così come le fa Damiano da solista.
Anche cambiando genere rimane comunque interessante?
Ha una bellissima timbrica, una voce che gestisce molto bene.
E Victoria è più una bassista o un’influencer?
Guarda, ci sono bassisti e bassisti… e bassiste. Non vorrei focalizzarmi sulla distinzione tra uomo e donna, perché non ragiono in questi termini. Se parliamo di abilità, ci sono sicuramente bassisti più bravi di lei. Ma la musica non è solo tecnica: bisogna saper stare sul palco, costruire un personaggio, avere una band solida e pezzi che funzionano. E sotto questo aspetto, lei e i Måneskin hanno fatto centro.
Un gruppo che consiglieresti di andare a vedere oggi, a parte Il Teatro degli Orrori e te stessa?
Se parliamo di band internazionali, direi i Nothing But Thieves che mi piacciono parecchio, così come i Royal Blood. Se invece dobbiamo restare sull’italiano, dammi 30 secondi per pensarci! Ad esempio, l’ultimo disco italiano che ho comprato è stato quello solista di Manuel Agnelli, quindi finirei per consigliarti artisti che sono già dei cult. A pensarci bene, mi vengono in mente alcune colleghe che stimo molto. Ad esempio Giorgieness, che si muove in un ambiente simile al mio. Tra l’altro, noto un certo movimento di solidarietà tra donne nel rock ultimamente, e mi piace molto. Poi ci sono Le Bambole di Pezza e altri diversi nomi interessanti, anche se io resto affezionata ad alcuni artisti di qualche anno fa.
Bello vedere un risveglio del rock al femminile in Italia. Da questo punto di vista, nel mondo rock non c’è discriminazione, giusto?
Io non l’ho mai percepita. Ho iniziato la mia carriera in un ambiente che poteva essere un vero campo di battaglia da questo punto di vista: lavoravo su Rock tv, dove il pubblico era fatto di rockettari puri e duri. Eppure, nonostante fossi giovane e donna, non ho mai sentito discriminazione. Se sei credibile in quello che fai, dovrebbe andare tutto bene, a prescindere dal sesso.
A proposito di questo, cosa ne pensi delle rivendicazioni femministe nel pop, come quelle di Elodie o Rose Villain?
Certo l’immagine del rockettaro senza maglietta è un classico, e vale sia per il passato che per oggi. Cosa ne penso? Penso che ognuno debba essere libero di esprimersi come vuole. Sta alla persona decidere come veicolare il proprio messaggio e in quale estetica si sente a suo agio. Recentemente ho fatto una chiacchierata su questo tema, parlando della confidenza sul palco. Io, per come sono fatta, devo sentirmi completamente a mio agio, anche a livello di abbigliamento. Non mi sentirei a posto esibendomi in costume, ma se qualcun’altra lo fa e si sente forte così, va benissimo. Infatti, ho sentito un’intervista di Rose Villain in cui diceva: “Non è che perché sono bella questo va a svalutare la mia bravura”. Sono due cose diverse, che possono camminare su strade parallele.
L’immagine ha sempre avuto un ruolo importante, sia per gli uomini che per le donne?
Alla fine non è una grande novità. Se penso a Erotica o Vogue di Madonna, parliamo di quanti anni fa? Quasi 40! Nel senso, lei portava in scena la trasgressione, la mutanda di pelle, eppure nessuno ha mai messo in discussione il fatto che fosse un’artista.
Anzi, Madonna aveva già stravinto perché era andata oltre.
Il problema nasce quando diventa una strategia imposta, una necessità: o fai così, oppure non funziona. Quello sarebbe un peccato, perché significherebbe togliere il contenuto e sottolineare solo la forma. Se si riduce tutto a questo, chi se ne frega? Torniamo al discorso di prima: se non hai niente da dire, meglio stare zitti.

Parlando di strategie imposte, un effetto è l’omologazione, no? Le canzoni tutte uguali. Succede solo nel pop o anche nel rock?
Nel pop sicuramente sì. C’è questa necessità di stare nei tempi giusti per TikTok, di essere virali prima ancora di uscire, di costruire le melodie pensando già all’algoritmo. Nel rock, invece, proprio perché non è mainstream e non segue queste regole commerciali, c’è ancora un certo margine di libertà espressiva. Altrimenti non sarebbe più rock. Il rock, alla fine, è sinonimo di ribellione, di alternativa, di diversità. Chiamalo come vuoi: è altro.
Con che band ti presenterai ai live?
Siamo in cinque: due chitarre, basso e batteria. E voce, ovviamente. Tra l’altro, visto che parlavamo di bassiste donne: io ho una bravissima bassista, si chiama Elettra Pizzale. Ci stiamo preparando, siamo tutti quanti carichi e non vediamo l’ora di sudare sul palco
La questione autotune: ultimamente Elio ha sbottato, ma non è l’unico. Cosa ne pensi?
Sì, lui si è risentito parecchio, anche se non ricordo le parole esatte, comunque ha ragione. Per quanto mi riguarda è scandaloso. Un conto è usare l’autotune come effetto su un pezzo, ma il suo utilizzo nei live, nei programmi tv, nei talent no, proprio non lo concepisco. Perché allora voglio anche delle manine bioniche per i chitarristi, così possono suonare tutti bene.
O magari testi scritti dall’intelligenza artificiale.
Dai, di cosa stiamo parlando? È una follia. Ma tanto poi nei concerti la verità viene sempre a galla. Perché se ti affidi all’autotune in studio, poi te lo porti anche sul palco, ed è lì che si vede chi sa fare davvero. Finché l’autotune rimane un tratto distintivo della trap, va bene, perché è chiaro che non sono cantanti, sono rapper. Ma quando invade la scena pop, dove invece siamo sempre stati abituati a sentire belle voci, voci talentuose, allora c’è un problema. Poi, cantare non vuol dire soltanto avere una voce perfetta, perché ci sono cantanti che magari non hanno una grande estensione, ma che interpretano e ti aprono mondi con la loro espressività. Quello è il punto.
Era il principio anche del punk: la voce non era tutto, contava l’attitudine. Un po’ come dicevamo prima su Capovilla.
Sì! Per me Pierpaolo Capovilla è un esempio perfetto. Quella verità, quella imperfezione, quel marcio che mette nel narrare e nel cantare: sfido chiunque a tirarlo fuori con un software che ti sistema la voce. Non funziona.
Ci vuole misura anche nella perfezione?
Assolutamente sì. Una nota calante ogni tanto ci sta. Poi, certo, se tutto è impeccabile ed è anche interpretato bene, tanto meglio. Comunque dipende dal genere. Se vado ad ascoltare i Queen con Adam Lambert mi aspetto la perfezione, e lui spacca. Ma se vado a vedere una band punk, voglio sentire il grezzo, la verità. Senza autotune, grazie. Spero che questo messaggio sia chiaro!
La musica di oggi è troppo semplice?
Se parliamo della musica che domina le classifiche e gli algoritmi, sì. Ma se hai voglia di cercare, trovi ancora band prog e musicisti che vogliono complicarsi la vita, e lo fanno anche bene. Certo, sanno già che faranno una fatica enorme, ma se quella è la loro strada, la percorrono comunque.
Anche se rimarranno di nicchia.
Ma va bene così! È giusto che esistano anche le cose di nicchia.
Ultima domanda, la più difficile: guarderai l’Eurovision?
Sì, ma… aspetta, quando è? (ride) No, dai, in realtà mi piacciono gli eventi musicali, li guardo volentieri. Ho visto tutto Sanremo guarderò anche l’Eurovision. Non sono la classica rockettara che ascolta solo rock, mi piace esplorare altro. Essere chiusi mentalmente, nel 2025, non ha senso.


