Vorrei dire la mia riguardo la faccenda del “troia” detto da Iva Zanicchi a Selvaggia Lucarelli nel corso della prima puntata di Ballando con le stelle. E come sempre parto da lontano.
Sul finire del secolo scorso è uscito un film da molti accolto con la fantozziana esclamazione “è una cagata pazzesca”. Un film di Marco Risi dal titolo L’ultimo capodanno, tratto da uno dei racconti di quel capolavoro del giovane Niccolò Ammaniti. Il film, in effetti, a parte per l’apparizione di una Monica Bellucci come mamma l’ha fatta (come mamma l’ha fatta e natura l’aveva conservata allora, immagino anche oggi), era abbastanza una cagata pazzesca, incapace di rendere in immagini quello che lo scrittore romano aveva immaginato su carta, una storia apocalittica che si svolgeva in un caseggiato romano durante, appunto, una notte dell’ultimo dell’anno. In una scena, è di questa che voglio parlarvi per parlare del “troia” di Iva Zanicchi, il personaggio interpretato da Alessandro Haber, non ricordo esattamente chi fosse o cosa facesse, finisce nelle mani di due balordi, che vogliono compiere una rapina approfittando proprio dei festeggiamenti di Santo Stefano. Haber è a conoscenza di dove sia il tesoro cercato dai balordi,quel che però i due balordi ignorano è ciò che il personaggio interpretato da Haber stava facendo un attimo prima del loro arrivo, si stava sottoponendo a una pratica di dominazione da parte di una professionista del settore, una dominatrix. C’è quindi questa scena in cui Haber viene legato a un termosifone dai balordi e schiaffeggiato, al fine di estorcere le informazioni utili a mettere le mani sul bottino. Ma a ogni schiaffo o pugno ricevuto, invece di ottenere risposte, i balordi assistono a un Haber sempre più in estasi, quello che per loro è una punizione per lui è una specie di premio.
Scarto un attimo di lato, poi torno su Haber legato a un termosifone. Poco dopo la fine di quel millennio, nei primissimi anni zero, ho pubblicato un libro dedicato a un coast to coast fatto negli USA con Cristina Donà. Diverse di quelle pagine, probabilmente non centralissime, sono dedicate a mie dissertazioni sul vaffanculo. Dicevo, allora, in un’epoca in cui il politicamente corretto era ancora praticabile, che trovavo assai bizzarro l’uso del vaffanculo anche da parte degli omosessuali, di comunità LGBT non si parlava ancora nel mainstream, men che meno di quelle LGBTQ+ e via discorrendo. Mi spiego meglio, senza occupare qui il medesimo spazio dedicato all’argomento in quel libro. Vaffanculo, o la sua forma più smar fanculo, è un invito a farsi sodomizzare, almeno da lì deriva quel tipo di insulto. È quindi, nell’ordine, un insulto omofobo, perché ricorre a quella che genericamente viene riconosciuta come la pratica principe della sessualità gay per identificare come gay chi la pratica e invitare veementemente a fare qualcosa che evidentemente viene ritenuto indecoroso, se non addirittura aberrante. Dato per assodato che nel mainstream, allora come credo anche oggi, tutti pensino che i gay pratichino il sesso anale, presumibilmente in forma passiva, di quello si tratta dicendo “fanculo”, sbagliando un po’ la mira, e dando quindi al sesso anale passivo una valenza negativa, uno stigma. Nel mio ragionamento, che riassumo qui, dire quindi vaffanculo era un insulto omofobo che guardava al sesso anale come a qualcosa di turpe tanto da poter diventare oggetto di un insulto. Mi chiedevo perché mai chi praticasse quel tipo di sesso, accettasse per buono quell’insulto. Il discorso, ovviamente, non era affatto da circoscrivere al mondo omosessuale, il sesso anale non è certo (e non era allora) una pratica esclusivamente gay, ma lo stigma, è evidente, è relativo al mondo gay, è a quello che si fa riferimento usando quell’insulto. Con questo non immaginavo certo che chi pratichi il sesso anale, etero, LGBTQ+, asessuato, come anche chi si limita a apprezzarlo da fruitore del porno, mondo nel quale l’anal ha un ruolo centrale, all’epoca la rete era faccenda per pochi, il porno era decisamente meno diffuso, di colpo smetta di dire fanculo, e non lo immagino neanche ora. Ma ne scrissi perché mi incuriosiva molto questo paradosso.
Potrei andare avanti. Ma non credo serva. Se ho citato un brutto film nel quale Alessandro Haber gode mentre due balordi lo picchiano nel tentativo di estorcergli una informazione e ho raccontato di alcune pagine di un mio libro nel quale mi soffermavo sul paradosso di praticare sesso anale e usare il vaffanculo come insulto è perché in entrambi i casi l’effetto straniante era dato dal rovesciare una convenzione. Se non si è masochisti essere picchiati è qualcosa che non ci provoca piacere, quindi chi ci picchia sa che potrà indurci a dire quello che di nostro non vorremmo dire. Se diciamo fanculo vogliamo dire a qualcuno che lo riteniamo gay, o meglio frocio, ricchione o quel che volete, quindi sodomita, o se non è questa la sfumatura che diamo a quell’insulto tendiamo sempre a stigmatizzare la sodomia, uso non a caso ovviamente questo termine, perché auguriamo a un etero di praticarla passivamente, senza per altro sapere se chi è destinatario del nostro vaffanculo lo pratichi o meno, e quindi quello che per noi è un insulto non rischi di essere un augurio (per altro anche chi lo pratica usa immagino il fanculo, quindi in quel caso l’insulto è ancora più paradossale).
Convenzioni. Di questo si tratta. Se diciamo frocio a qualcuno non è perché pensiamo sia gay e siamo dotati di un lessico triviale che ci impedisce di usare forme più idonee, è perché vogliamo svilire il nostro interlocutore, e riteniamo che dirgli che è gay, ma dirlo in quel modo, sia una forma efficace di svilimento. Se diciamo stronzo, per dire, paragoniamo il destinatario del nostro insulto a una merda, non perché pensiamo che in effetti lo sia, usiamo una convenzione, facilmente decifrabile per chiunque. Quando quindi si dice troia, o puttana o quel che è a qualcuno, non si intende dire che in effetti la persona che insultiamo pratichi la prostituzione, anche se in alcuni casi è proprio di questo che stiamo parlando, penso a chi vuole insultare chi ritenga lo abbia tradito (non solo sentimentalmente, anche lavorativamente, per dire, chi si è venduto a qualcun altro), si intende usare uno stigma patriarcale che pensa la donna come un oggetto sessuale per ferire il nostro interlocutore, e trattandosi di convenzione lo si fa automaticamente, senza star lì a fare tutte questi ragionamenti.
Dici troia a una donna che non ha messo la freccia tagliandoci la strada (qualcuno potrebbe pensare che io stia usando a mia volta un esempio patriarcale, alludendo a una incapacità congenita nella donna nel guidare, ma giuro che è solo un esempio) e non lo fai perché pensi che sia una prostituta, di lavoro, né perché pensi che abbia una sessualità promiscua e troppo disinibita, dici troia perché vuoi oggettificarla, svilirla, denigrarla. Esattamente come quando dici frocio. Tutti insulti che fanno riferimento a una cultura patriarcale, lì a portata di mano di uomini e donne. Dire che troia è una parola che in realtà può essere usata con allegria è sì vero, ma è una forzatura se a usarla è chi voleva insultare (le scuse via Twitter di Iva, tardive, ci dicono che non stava scherzando affatto) e il politicamente corretto non c’entra una beata fava, credo che nessuno possa pensare io lo pratichi, perché non è che non dire troia a qualcuno significa autocensurarsi per una sorta di dittatura del bigottismo, significa capire che troia non è un aggettivo che va usato, uomo o donna che si sia, il fatto che questa parolina derivi da un modo con cui viene chiamata la scrofa sottintende come di giocoso ci sia proprio nulla, il maiale in questione non è Pimpi, ma un essere considerato abietto, riprovevole, che si rotola nel fango mangiano la sua stessa merda.
Quindi no, Iva Zanicchi non è giustificabile, e le scuse credo dovrà dirle in viva voce sabato prossimo, magari provando in tardiva età a ragionare prima di aprire la bocca, perché non tutto quel che si pensa si dovrebbe poter dire, e già il solo fatto di pensarlo non è poi così edificante.