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INVECCHIARE MALE: Abbiamo letto “Socrate, Agata e il futuro” di Beppe Severgnini, il libro più venduto in Italia: ma com'è? Davvero Rizzoli ha deciso di inquinare l’atmosfera stampando questo “best seller”? L’Ia lo avrebbe scritto meglio e…

  • di Pippo Russo Pippo Russo

29 maggio 2025

INVECCHIARE MALE: Abbiamo letto “Socrate, Agata e il futuro” di Beppe Severgnini, il libro più venduto in Italia: ma com'è? Davvero Rizzoli ha deciso di inquinare l’atmosfera stampando questo “best seller”? L’Ia lo avrebbe scritto meglio e…
Più che un libro una sintesi di tutto il lavoro recente di Severgnini nel mondo editoriale: ma davvero Rizzoli ha voluto pubblicare, inquinando, la versione cartacea di questo libro? Il giornalista del Corriere, ora editorialista, scrive anche che non è stato aiutato dall’intelligenza artificiale, ma forse sarebbe servito per evitare molte banalità e la convinzione di aver scritto un saggio pieno di umorismo e ironia. La verità? Che non basta un libro per dimostrare di non essere invecchiati male…

di Pippo Russo Pippo Russo

Un interrogativo ci assale ogni volta che tocca infliggersi un libro di Beppe Severgnini: quanto inciderà l’aria fritta nell’erosione della fascia di ozono? Sì, ridete. E invece l’interrogativo è serissimo. Andrebbe assunto come strumento metodologico per affrontare i prodotti editoriali di autori come il nostro Principe di Fried Air e una nutrita banda di altri soggetti che degnamente figurerebbero insieme a lui, dentro una di quelle belle foto di gruppo da appendere a una parete dell’Overlook Hotel. Perché qui c’è da prendere in considerazione una questione di impatto ecologico a tutto tondo. Che uno, d’acchito, pensa sia solo un problema della quota di foresta sacrificata per scaraventare sul mercato tali fetenzie editoriali. E invece è mica solo questo il punto. C’è anche un importante aspetto di ecologia delle menti, drammaticamente aggredita da un effetto-percolato. Ma è soprattutto il tema della qualità dell’aria a presentare un profilo di emergenza: in che quantità se ne può friggere, senza che l’aggressione alla fascia d’ozono superi i livelli di guardia. E andando più nello specifico: quanti giorni di circolazione a targhe alterne ci costa ogni nuovo libro di Beppe Severgnini? E quanti carbon credit deve acquistare la Rizzoli, per compensare una così proditoria aggressione al bene pubblico dell’aria che respiriamo? 

"Socrate, Agata e il futuro" di Beppe Severgnini (Rizzoli, 2025)
"Socrate, Agata e il futuro" di Beppe Severgnini (Rizzoli, 2025)

Fare i vecchi saggi con la gotta degli altri


Porre certe domande è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Tanto più quando viene sversato nelle librerie un nuovo manufatto editoriale firmato dal Pontefice Massimo della Chiesa Banalogista Universale. Dunque, tocca prestarsi anche nel caso di Socrate, Agata e il futuro. L’arte di invecchiare con filosofia (Rizzoli, 2025). Un testo che, se gli si dovesse dare un voto in decimi, richiederebbe l’uso delle formule che nelle pagelle delle partite di calcio viene riservato ai calciatori che sono stati in campo troppo poco per essere valutati: “sv” (senza voto) o “ng” (non giudicabile). Il motivo di questa scelta è molto semplice: come si fa a dare un voto al nulla, al vuoto pneumatico? Impossibile. Potrebbe essere 0 perché, appunto, rappresenta il Nulla. Ma potrebbe anche essere 10 perché rappresenta la perfezione del Nulla. Ergo, bisogna astenersi. Così come ci si astiene dal valutare l’eccesso di zelo – ancora una volta: premiare lo zelo, o punire l’eccesso? Saperlo… – con cui l’autore verga la precisazione come premessa del testo: 
 
NON SONO UN ROBOT 
Questo libro è stato scritto dall’autore senza ricorso all’Intelligenza Artificiale (salvo una pagina, ma c’è un motivo) 

 
Una precisazione assolutamente superflua: perché nessun passaggio di quel libro potrebbe essere sospettato di accostarsi a qualsivoglia forma di intelligenza, foss’anche amebica. Ciò detto, si può avviare il lavoro di analisi del manufatto editoriale. E tuttavia, bisogna indugiare ancora un attimo su questioni preliminari per rintuzzare l’obiezione emergente: ma cosa ti occupi a fare dell’ultimo manufatto editoriale di Beppe Severgnini, se è uguale a tutti i precedenti? Rispondiamo prendendo in prestito la storica frase del massimo filosofo dialettico del Novecento, l’ex terzino Gigi Garzya: sono completamente d’accordo a metà. Perché sì, è vero che questo manufatto editoriale è identico a tutta la precedente produzione severgnignara, e dunque arma la medesima orchite. E tuttavia, c’è un aspetto che rende una specificità a questo libro: la pretesa di riflettere sull’esperienza dell’invecchiamento, di farne un’arte e – ohibò! – di affrontarne il percorso con la saggezza richiesta. Roba che di per sé è di un’originalità che lèvati, e che il Pontefice Massimo legittima tirando in ballo la povera nipotina Agata – la quale, da adulta, dovrà pur chiedergliene conto e restituire l’onta, in un impeto ultra-edipico di uccisione del nonno. 

Il tempo dirà. Ma rimanendo al presente, bisogna soffermarsi sui contenuti (si fa per dire) dell’ultimo manufatto editoriale severgnignaro e spiegare perché sia stato buttato del tempo a leggerlo e poi a parlarne qui. Il motivo sta nella dinamica della breve illusione e dell’altrettanto subitanea disillusione che si è accesa alla lettura di pagina 11 della versione digitale. Siamo proprio alle battute iniziali del manufatto. Il severgnante ha appena raccontato l’aneddoto di un uomo sui settant’anni, avvistato in un aeroporto sardo e descritto con tutte le caratteristiche del soggetto che proprio non vuol rassegnarsi al tempo che passa; e che per questo si rende ridicolo abbigliandosi e comportandosi come un eterno ragazzino. E a quel punto, ecco il frammento che apre lo squarcio dell’abbacinante speranza: 
 
Aver successo da anziani è possibile. Ma occorrono doti nuove. L’onnipresenza, a una certa età, è un segno di disperazione. Bisogna capire che arretrare può rivelarsi saggio. 
 
E lì davvero è stato un attimo di vertigine, l’inattesa sensazione di trovarsi davanti a un passaggio d’epoca: vuoi vedere che finalmente Severgnini si leva dai coglioni? Sito nel quale, peraltro, staziona in divieto di sosta da circa un trentennio. Che dire? È stato breve ma intenso, meraviglioso. Perché nell’istante necessario a scorrere la lettura di poche righe è passata, davanti agli occhi della mente, una sequela di immagini in cui il severgnante sparisce d’improvviso, come in un fumetto (“PUF!”, e la nuvoletta in dissolvimento): Severgnini che svanisce dalla pagina del Corriere della Sera; Severgnini che smette di occupare lo schermo in collegamento da remoto su Rds; Severgnini che è una sedia vuota nel desolante show tenuto in prima serata su La 7 da Calogera Gruber. Speranze vane, illusori auspici. Perché appena qualche riga più in giù ecco l’amara verità: 
 
La bellezza, l’energia e il successo sono idolatrati; l’età e l’esperienza, sopportate. I modelli di consumo esaltano la gioventù, e la trasformano in qualcosa di irraggiungibile. È un errore civile, sociale e – perché no – commerciale. La generazione dei sessantenni e settantenni – la mia, quella che sta andando o è andata in pensione – è numerosa e vitale. Se venisse coinvolta con intelligenza, eviteremmo lo spettacolo malinconico di molti nuovi anziani che negano di esserlo, pur di esserci. (pagina 11) 
 
E casomai non fosse abbastanza chiaro, ecco ribadito il concetto a pagina 72: 
 
Le menti giovani sono più innovative, ma «creatività senile» non è un ossimoro. Gli esempi, nella storia, sono numerosi. Michelangelo ha progettato la cupola di San Pietro a ottantotto anni, Frank Lloyd Wright ha disegnato il Guggenheim Museum a novantuno, Claude Monet ha continuato a dipingere finché la vista glielo ha consentito. Nicholas Delbanco, autore di Lastingness: The Art of Old Age, scrive: «Se sei un giocatore di baseball o una ballerina, sai che la tua carriera a quarant’anni sarà finita. Ma non esiste una ragione intrinseca per cui un artista non possa crescere col tempo». 
Le aziende dovrebbero ricordarsene. E non dimenticare una cosa altrettanto importante: la creatività non si ordina, come fosse la colazione in camera. 
 

Dunque, riponete le speranze e racconciatevi: Severgnini ci rimarrà attaccato ai coglioni finché campa. E intanto, per sovrammercato, continuerà a dare consigli agli altri anziani, affinché capiscano quando sia PER LORO il momento di farsi da parte. Quando si dice: fare l’anziano con la gotta degli altri. Né il severgnante si limita a questa incoerenza di carattere generale (principio per cui tutti gli anziani dovrebbero farsi da parte tranne lui), ma si esprime anche con le incoerenze di dettaglio. Per esempio, quando enuncia il principio per cui non bisognerebbe tromboneggiare rimpiangendo i bei tempi andati per schifare quelli correnti: 
 
Don’t become an old bore, non diventare un vecchio barbogio: dovrebbe essere un imperativo, a una certa età. L’ansia per il tempo che passa, infatti, si manifesta in molti modi: il più comune è il fastidio per le novità, travestito da nostalgia. (pagina 145). 
 
Esiste qualcuno pronto a contraddire questo principio di buon senso? Certo che esiste: lui medesimo. E si manifesta nel frammento di pagina 22 in cui parla dei vecchi dischi in vinile e fa riferimento a quello cui dichiara di essere particolarmente legato, Life during wartimes dei Talking Heads. E a quel punto, he becomes an old bore: 
 
Quel vinile, ovviamente, ce l’ho ancora. Non puzza di nuovo, sa di vecchio. Ha un odore. 
Qual è l’odore di Spotify? 

 
Ah, saperlo. Magari sarà più meno lo stesso delle cazzate lette in epub. 

Tanto è ironico quanto è banale

Chi ha contratto il vizietto di leggere i manufatti editoriali di Severgnini troverà, in quello di cui qui si sta parlando, tutte le caratteristiche d’insipidezza rintracciabili in ogni altro. A partire da quella che è la più perniciosa autorappresentazione che l’autore medesimo ama alimentare: quello di essere un fine umorista e di possedere l’arma dell’ironia. Su quest’ultimo aspetto, il severgnante insiste con assiduità sospetta. E verrebbe da dirgli che l’abbiamo capito, e che è inutile insistere perché tanto non ci fa convinti. Ma niente, lui tira dritto. E piazza il concetto in modo maniacale: 
 
 (…) serve l’ironia, antiruggine dell’anima. (pagina 12) 
L’ironia è la sorella laica della misericordia. (pagina 53) 
L’ironia è una nave leggera, la correttezza politica un uragano. (pagina 64) 

 
Uno dei frammenti dedicati al tema è limpido come l’eloquio di Salvatore de Il nome della rosa (pagine 54-55): 
 
L’ironia nasce da un’attitudine e diventa un atteggiamento. In sostanza: alcune persone sono predisposte all’ironia, altre no. Ma tutte – be’, quasi tutte – possono imparare a utilizzarla. Perché l’ironia è, soprattutto, una disposizione di spirito. Certo, bisogna saperla maneggiare. Abbiamo spiegato che non va confusa con il sarcasmo, e neppure con lo scherno; semmai è vicina allo scetticismo, con cui condivide il disincanto. 
 
E a questo punto bisogna provare a mettere un minimo di ordine nella tempesta neuronica che vi s’è abbattuta addosso. Dunque, procediamo per passaggi successivi: 
 
1.    L’ironia nasce da un’attitudine; 
2.    L’attitudine diventa atteggiamento [per inciso, se fosse un esame universitario si sarebbe chiamati a chiarire la differenza fra attitudine e atteggiamento, pena l’invito a tornare nella prossima sessione]; 
3.    Ma l’ironia è anche una disposizione di spirito [antani come se fosse]; 
4.    Non va confusa col sarcasmo e neppure con lo scherno [ma perché, chi mai aveva intravisto questo rischio?]; 
5.    Piuttosto l’ironia è vicina allo scetticismo [di cui non viene detto se sia un’attitudine, un atteggiamento, una disposizione di spirito o un brufolo sulla chiappa sinistra]; 
6.    E infine, queste due vicine di casa che rispondono ai nomi di ironia e scetticismo si trovano a condividere il disincanto [ah, l’amour à trois]. 
 
Ci sarebbe un ulteriore frammento sul tema dell’ironia, che però riserviamo per la chiusura. Ciò che invece va riportato in questo passaggio è l’elenco di devastanti banalità che in un libro di Severgnini sono piazzate come un marchio di fabbrica. Si comincia con le pseudo-saggezze, di quelle che ormai anche le vostre bisnonne avrebbero imbarazzo a proferire. Tipo la seguente: 
 
Una lezione che dovremmo imparare: le parole sono gratis e tutti, chi più chi meno, ne abusiamo. (pagina 43) 
 
Sarebbe già desolante se si fermasse a questa roba qui. E invece il severgnante insiste con considerazioni filosofiche sfornate dal microonde: 
 
La solitudine non è solo fisica: si può essere soli anche in coppia, in famiglia o al lavoro. (pagina 37) 
 
Non mancano i consigli da maestro di vita. Per esempio il seguente, dedicato al modo giusto di scegliere una buona idea (pagina 74): 
 
Come procedere, quindi? Be’, semplice: 
1.    Farsi venire molte idee 
2.    Scartare le idee scadenti 
3.    Tenere le idee buone. 

 
Minchia! Averci pensato prima. E ancora, come migliorare le condizioni di lavoro personali e di gruppo? Presto detto (pagina 83): 
 
Un ambiente gradevole aiuta l’umore, favorisce la concentrazione e migliora la qualità del lavoro; può apparire banale, ma è così. 
 
Banale? Ma figuriamoci! Tanto più che il picco dell’illuminazione che il Grande Sacerdote ci dispensa viene toccato a pagina 82: 
 
Se siete stanchi, dormite. 
 

Beppe Sevegnini
Beppe Severgnini

Ma non lo vedete quale sterminato orizzonte vi è stato squarciato innanzi?

Va da sé Severgnini non rinuncia mai alla tentazione di mostrarsi come fine umorista. Non c’è verso di farlo recedere, è una battaglia persa. E a questo punto sarebbe da chiedersi se il pover’uomo abbia intorno a sé qualcuno che gli voglia bene abbastanza da persuaderlo a non insistere, che proprio non è il caso. E in attesa di veder finalmente arrivare colui/colei che si faccia carico del penoso compito, lui insiste a sparare “battute di spirito” che tanto lo approssimano al personaggio del tenente Steven Hauk (interpretato da Bruno Kirby) in Good morning Vietnam. Ricordate la sequenza? Lo sciagurato pretendeva di sostituire in conduzione radiofonica il geniale Adrian Cronauer (Robin Williams). Con esiti raggelanti. Il tenente Hauk ci torna in mente ogni volta che il severgnante compie i suoi tragici esperimenti di umorismo. Che talvolta sconfinano pure nel pessimo gusto: 
 
Per tutto il pomeriggio un sole impudico splende sopra un’aria tersa. Le nuvole e la pioggia si sono fermate, come i migranti a Ventimiglia. (pagine 97-98) 
 
Che leggerezza, che sensibilità. Sempre centrato e opportuno. Nel manufatto editoriale che qui trattiamo il severgnante sfoggia il suo raffinatissimo brown humour piazzando chiose pietose ai testi di alcuni brani musicali Anni Settanta. Roba che fa venire in mente una vecchia rubrica del settimanale Cuore, che si proponeva come un servizio pubblico a disposizione di soggetti incapaci di provare imbarazzo per le loro azioni. Il titolo della rubrica era Vergogniamoci per loro. Quel titolo riecheggia dopo ciascuno dei frammenti che riportiamo a seguire, e che sono una minima parte di quelli inseriti nel testo a pagina 49: 
 
Quando Battisti sussurrava «E la cantina buia dove noi / respiravamo piano» (La canzone del sole) descriveva una situazione reale. Se avessimo respirato forte tutti insieme, avremmo esaurito l’aria. (…) 
 
Quando ascoltavo «Un panino, una birra, e poi / la tua bocca da baciare» mi chiedevo: deglutire prima, no? (…) 
«La veste dei fantasmi del passato / cadendo lascia il quadro immacolato». Quale quadro? In camera, tutt’al più, appendevamo i poster. 

 
Desolazione pura, con l’aggiunta della totale mancanza di originalità. Per capire, va letto in seguente frammento ricavato da pagina 50: 
 
Altri versi di Battisti-Mogol erano meno misteriosi. Per un ragazzo di Crema, ad esempio, la parte agricola era familiare. «Le biciclette abbandonate sopra il prato e poi / noi due distesi all’ombra / Un fiore in bocca può servire sai / più allegro tutto sembra» (La canzone del sole): escludo di aver masticato papaveri nei campi fra Sergnano e Pianengo, ma l’immagine era convincente. Così «Che ne sai tu di un campo di grano / poesia di un amore profano» (Pensieri e parole): capivamo il concetto, apprezzavamo la poesia, ma preferivamo i sedili ribaltabili della Fiat 127 al fastidio delle pannocchie nella schiena (per non parlare degli accidenti del coltivatore diretto cui avremmo rovinato il mais). 
 
La cosa veramente notevole è che sul frammento di Pensieri e parole («Che ne sai tu di un campo di grano?») aveva fatto ironia Walter Chiari soltanto una sessantina di anni fa. Una roba che nemmeno il devastante sergente Hauk si sarebbe sognato di riesumare. Invece Severgnini sì.  
 

Ego sum

Si va di sintesi, perché altrimenti ci sarebbe da scrivere un articolo lungo almeno il doppio e davvero non ne vale la pena. Sicché, dedichiamo l’ultimo frammento allo smisurato ego del severgnante, così inversamente proporzionale alla qualità dei suoi testi. I frammenti da menzionare non mancano. Ci sentiamo di citarne uno su tutti. Riguarda un passaggio in cui il severgnante si propone come talent scout (pure questa, nevvero?). Così è a pagina 76: 
 
Contro questa dicotomia – chi pensa e chi fa, chi crea e chi esegue – mi sono sempre battuto. Ricordo il programma L’erba dei vicini, in onda su Rai 3 fra il 2015 e il 2016: l’Italia messa a confronto con un altro Paese su questioni diverse. Italia e Francia, Italia e Usa, Italia e Cina, e così via. C’era anche Italia-Israele. Avremmo parlato di adolescenza, di matrimoni, di start-up tecnologiche. Alla riunione ho invitato una giovane redattrice: famiglia ebraica, conosceva bene Israele. Un autore esperto ha protestato: «Eh no, i redattori facciano i redattori, cerchino notizie e ospiti. Ai contenuti pensiamo noi». Non l’ho ascoltato: la giovane redattrice è intervenuta e s’è rivelata fondamentale, nella preparazione e poi come inviata sul campo. L’autore esperto, dopo qualche giorno, ha scelto di lasciare il programma. 
 
Che stile, che classe: vantarsi di avere indotto un autore a lasciare lo staff di un programma televisivo. Non è un tipino amabile? Fra l’altro, ci propina la sua versione dei fatti senza che minimamente si curi di favorire il contraddittorio. E chissà cosa invece direbbe l’autore in questione, se gli si desse parola. Magari provi a contattare la redazione di MOW, che ci si diverte.

Ma, come detto, ci siamo riservati un frammento relativo al tema dell’ironia. È perfetto per chiudere l’articolo sul manufatto editoriale. Lo si trova a pagina 66 dell’edizione digitale e mette al centro il tema del rapporto fra ironia e stupidità: 
 
L’ironia è dimostrazione di agilità mentale. È terapeutica, guarisce dalle piccole ferite della vita: fa bene. È un’assicurazione che protegge dalle sorprese: fa risparmiare. La stupidità fa molte altre cose: fa pena, fa arrabbiare, fa perdere tempo. Di sicuro, non fa ridere. 
Detto ciò: come non essere affascinati dagli stupidi? 
 

Narciso, parole di burro. 

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