Sì, è ancora Wes Anderson, ma è più politico, forte, contro tutto. Anche contro gli stronz*. Ricchi. La trama fenicia è un film fatto di crisi esistenziali, i personaggi che parlano come se fossero tutti appena usciti da un’accademia svizzera per adolescenti inquieti. Ma sotto, molto sotto, pulsa qualcosa di diverso. Più politico. Più spietato. Più spirituale, sì. Il protagonista di questa storia è Zsa Zsa Korda (un Benicio Del Toro finalmente libero di essere grottesco e magnetico), è la personificazione del capitalismo predatorio, senza morale, senza anima. Sopravvive a sei disastri aerei – sì, sei – perché il destino ha smesso di opporsi a chi ha abbastanza soldi per comprarselo. E ovviamente, in perfetto stile Anderson, questi incidenti non li vediamo mai davvero. Nessuna esplosione, nessun caos. Tutto ciò che è spettacolare non c'è, ne vediamo l'inzio, ne vediamo la fine. Solo racconti in soggettiva, voci fuori campo, diorami e taccuini animati. Perché nel cinema di Anderson tutto è rappresentazione e niente è trauma: non ci mostra le ferite, ce le fa intuire. Zsa Zsa è ricchissimo, arrogante, e incredibilmente vivo. Il tipo di uomo che oggi, forse, vorremmo vedere fallire, implodere, sparire. Ma invece no. Esiste ancora, esiste eccome. E ha deciso di lasciare la sua eredità a Liesl (Mia Threapleton), la sua unica figlia, una quasi-suora che lo odia profondamente. Lei è tutto ciò che lui non è: austera, spirituale, forse ingenua, ma determinata. Convinta che Zsa Zsa abbia ucciso sua madre, accetta comunque di seguirlo nel suo tour degli orrori per un Medio Oriente immaginario anni Cinquanta, tra sabbie finte, bazar ricostruiti e capitali petrolifere che sembrano uscite da un modellino Lego.

E poi questa trama fenicia, un progetto che fino alla fine non si capirà mai. Non è altro che un’odissea tra il grottesco e il mistico. Con loro c’è anche un sedicente entomologo, interpretato da un Michael Cera che sembra sempre sul punto di confessare di non essere chi dice di essere. Un segretario zelante, ambiguo, che in realtà sembra osservare più che partecipare, come se stesse prendendo appunti per un futuro golpe o un trattato di psichiatria. La trama, volutamente contorta e sfilacciata, non è il punto. È la cornice, il pretesto. Come sempre in Anderson, conta l’atmosfera, conta il ritmo dei dialoghi, conta il modo in cui un personaggio guarda un altro prima di dirgli qualcosa che potrebbe cambiargli la vita. Eppure, La trama fenicia ha un cuore narrativo più solido del solito: la relazione padre-figlia, quel legame tossico e struggente, è il centro gravitazionale del film. Un padre che vuole redimersi senza chiedere perdono. Una figlia che non sa se vuole vendetta o liberazione. Tutto intorno attentati, fondi neri, multinazionali senza scrupoli, religione come fuga o come arma. E un senso profondo di fine dei giochi. È come se Anderson non cambiasse stile, ma bersaglio. Il risultato? Un film che disorienta, che irrita, che commuove, che spiazza. Una fiaba crudele sul tramonto di un Impero. Tra sogni estenuanti di un uomo in conflitto (e in preghiera) con chi lo giudica e attorno i suoi stessi mostri, i rapporti da ricucire, e le vite da ricominciare in un altro modo, in La trama fenicia c'è uno spiraglio per un nuovo capitolo, sempre alla Wes Anderson, ma un po' più ruvido. Reale, forse. Per capire meglio le cose vicine, i problemi veri, Wes li guarda e ce li racconta (ancora) da lontano.
