image/svg+xml
  • Attualità
    • Politica
    • Esteri
    • Economia
    • Cronaca Nera
  • Lifestyle
    • Car
    • Motorcycle
    • Girls
    • Orologi
    • Turismo
    • Social
    • Food
  • Sport
  • MotoGp
  • Tennis
  • Formula 1
  • Calcio
  • Volley
  • Culture
    • Libri
    • Cinema
    • Documentari
    • Fotografia
    • Musica
    • Netflix
    • Serie tv
    • Televisione
  • Cover Story
  • Attualità
    • Attualità
    • Politica
    • Esteri
    • Economia
    • Cronaca Nera
  • Lifestyle
    • Lifestyle
    • Car
    • Motorcycle
    • girls
    • Orologi
    • Turismo
    • social
    • Food
  • Sport
  • motogp
  • tennis
  • Formula 1
  • calcio
  • Volley
  • Culture
    • Culture
    • Libri
    • Cinema
    • Documentari
    • Fotografia
    • Musica
    • Netflix
    • Serie tv
    • Televisione
  • Cover Story
  • Topic
Moto.it
Automoto.it
  • Chi siamo
  • Privacy

©2025 CRM S.r.l. P.Iva 11921100159

  1. Home
  2. Culture

JE NE SUIS PLUS CHARLIE. Libertà di espressione, com’è andata a finire vent’anni dopo le vignette su Maometto e dieci dopo Hebdo? Non potendolo più chiedere a Kirk…

  • di Matteo Cassol Matteo Cassol

  • Foto: Illustrazione AI MOW

3 ottobre 2025

JE NE SUIS PLUS CHARLIE. Libertà di espressione, com’è andata a finire vent’anni dopo le vignette su Maometto e dieci dopo Hebdo? Non potendolo più chiedere a Kirk…
Vent’anni dopo le vignette su Maometto e dieci dopo Charlie Hebdo, la libertà di parola non è morta (come Charlie Kirk), ma l’abbiamo seppellita dentro di noi, perché il costo per esercitarla è troppo alto. Oggi non c’è bisogno di fatwa: c’è l’autocensura. E a limitare il campo del dicibile non è più solo la religione. Ecco cosa abbiamo imparato e dove siamo andati a finire

Foto: Illustrazione AI MOW

di Matteo Cassol Matteo Cassol

La storia comincia vent’anni fa, l’inizio della fine: un giornale danese, una dozzina di vignette pubblicate quasi per gioco. Doveva essere un esperimento: testare se gli illustratori avessero paura di disegnare il profeta Maometto. Risultato: ambasciate bruciate, più di duecento morti, boicottaggi, aspiranti assassini con la faccia coperta che entrano nelle case dei vignettisti. L’Occidente si è scoperto fragile: bastavano dodici disegni a farlo tremare.

Dieci anni dopo, a Parigi, uomini armati entrano in una redazione satirica e sterminano giornalisti e disegnatori. Charlie Hebdo: un nome che è diventato un mausoleo, un adesivo, uno slogan, “Je suis Charlie”, che non protegge più nessuno. Siamo tutti Charlie? Forse per quarantotto ore. Poi basta, perché essere Charlie significherebbe rischiare, significherebbe morire davvero. E chi vuole morire per un disegno o una frase, oggi? Un altro Charlie, Charlie Kirk, nel 2025.

Non c’è niente di più scomodo della memoria quando mostra il fallimento. Vent’anni fa le vignette danesi, dieci anni fa Charlie Hebdo, oggi l’omicidio di Charlie Kirk: sempre la stessa scena, sempre lo stesso copione, sempre la stessa resa. Una parola che non si deve dire, una barzelletta che non si deve scrivere, un’immagine che non si deve mostrare.

Un’immagine come quella di una figura barbuta con una bomba nel turbante, la vignetta di Kurt Westergaard che oggi è come una reliquia radioattiva: non la si riproduce, non la si mostra, non la si tocca, difficilmente la si menziona. Non serve più nemmeno vietarla, perché nessuno osa pubblicarla. Questa è la vera vittoria del fondamentalismo: la paura è stata introiettata (no, non è una parolaccia, Google), la censura è diventata autocensura.

Westergaard morì nel 2021 sotto protezione armata dopo vari tentativi di assassinio, la porta blindata della sua casa trasformata in monumento muto. Flemming Rose, l’allora caporedattore della sezione cultura che pubblicò quella e altre undici vignette sul Jyllands-Posten il 30 settembre 2005, oggi parla con voce da superstite: “Stiamo interiorizzando i codici della blasfemia”, dice intervistato da Spiked. La parola non è più un diritto, è un rischio professionale, esistenziale, reputazionale.

Con quella pubblicazione il Jyllands-Posten non voleva insultare, voleva testare un sospetto: che l’Occidente avesse già iniziato a censurarsi da solo. E aveva ragione.

Charlie Hebdo, che all’epoca di censurarsi non voleva ancora saperne, pagò con il sangue dieci anni dopo. Quella mattina di gennaio 2015 non fu un attacco contro un giornale, ma un’esecuzione simbolica della libertà di scrivere, parlare, ridere di tutto, con vignettisti e giornalisti crivellati a colpi di kalashnikov in nome della divinità presuntamente offesa. Dieci anni dopo la strage, il bilancio è questo: i pochi sopravvissuti vivono come condannati in libertà vigilata, e la società che avrebbe dovuto difenderli ha preferito cambiare argomento. In Francia, in Danimarca, in Germania, ovunque (in Italia ci si era già conformati preventivamente: dalla religione alla criminalità organizzata, l’omertà e il tengo famiglia sono sport nazionali), il discorso pubblico ha scelto di scivolare nella “prudenza”. Ma non è prudenza, è resa. È “Je ne suis plus Charlie”. Nessuno è più Charlie. Tantomeno dopo che l’ultimo Charlie, Kirk, è stato letteralmente eliminato.

Il vignettista danese Kurt Westergaard
Il vignettista danese Kurt Westergaard Ansa

Come sta la libertà?

Vent’anni dopo le vignette danesi, dieci dopo Charlie Hebdo, la libertà di espressione non è morta: è stata lobotomizzata. Non siamo diventati più coraggiosi. Tutt’altro. Siamo diventati più cauti, più pavidi. Non servono più attentatori con gli Ak-47 e i lanciarazzi M80 Zolja o assalitori di ambasciate: la testa si è piegata piano piano, come un fiore che non osa più alzarsi verso la luce. Abbiamo fatto nostra la logica della fatwa senza avere più bisogno che qualcuno la emetta.

Flemming Rose dice: “Il problema non è più la censura, ma l’autocensura invisibile”. Invisibile e più pericolosa, perché non lascia traccia. Nessuno ti vieta formalmente di pubblicare un disegno, di scrivere una frase, di ospitare un dibattito. Ma tu non lo fai. Perché non vuoi rogne, non vuoi minacce, non vuoi perdere il lavoro. Non vuoi morire. Non c’è bisogno di un editto religioso per ridurre al silenzio un’intera civiltà: basta che impari a zittirsi da sola. E lo sta facendo.

Poi certo, la censura esiste ancora. E l’Europa si è convinta che l’offesa sia più pericolosa della censura. In Danimarca, dopo la fine della legge sulla blasfemia, il governo nel 2023 ha approvato una norma contro chi brucia il Corano. Il paradosso è totale. Si abolisce un vecchio reato medievale e subito se ne introduce un nuovo, con lo stesso fine, lo stesso approccio: far diventare dogma penale una suscettibilità personale. Si torna indietro, vestiti con tuniche di supposto progressismo.

La libertà di parola oggi è uno zombie: cammina ancora, ma è morta da tempo. Tutti dicono di volerla, nessuno la difende davvero. Perché difenderla significa difendere anche l’indifendibile, il razzista, il fanatico, il nemico. E invece preferiamo un conformismo comodo, una libertà selettiva che è la caricatura della libertà, di fatto la sua negazione.

La domanda allora non è “se” abbiamo perso la libertà di espressione. La domanda è quanto a lungo possiamo fingere di averla ancora?

Il "Je suis Charlie" celebrativo a dieci anni dalla strage di Charlie Hebdo
Il "Je suis Charlie" celebrativo a dieci anni dalla strage di Charlie Hebdo Ansa

Il fondamentalismo del conformismo

Il terreno, intanto, si è spostato. Non è più soltanto la religione a dettare i confini del dicibile. Il Covid, Gaza, il gender, il clima, l’immigrazione, ogni tema è diventato un campo minato. Ogni parola un possibile reato sancito dal tribunale del mainstream. O sei con noi o sei contro di noi. Non c’è spazio per le sfumature.

La nuova blasfemia non è solo contro la fede classica: è contro ogni dogma di questa epoca che si finge illuminata, evoluta e “scientifica” quando di scientifico ha solo l'epurazione del dissidente. Osi dubitare dell’obbligo di un vaccino nemmeno adeguatamente testato o dell’opportunità del lockdown indiscriminato o dell’utilità delle mascherine all’aperto? Complottista, criminale. Non credi a ogni dogma del cambiamento climatico raccontato da chi nel frattempo va a fare shopping in elicottero o viaggia su jet privati per fare cinquanta chilometri? Negazionista, nemico della Terra.

Prima la pandemia, poi ogni questione “sensibile”, ora il Medio Oriente. Basta una domanda o un pensiero non abortito nel proprio utero mentale ancora troppo poco sterilizzato e sei già marchiato: negazionista, razzista, islamofobo, transfobico, putiniano, genocida. Non esiste più dibattito: esiste solo la gogna. Accuse, insulti, sospetti, etichette, sospensione lavorativa (come accade in quei luoghi teoricamente di confronto e di cultura – ma in realtà spesso di fatto di indottrinamento e repressione – chiamati università) o esistenziale. Non dialettica, ma punizione. Non confronto, ma epurazione. È la logica tribale che diventa norma democratica. E il “bello” è che non è detto che chi ti sospenda la pensi tanto differentemente da te: è solo che sospendere chi ha osato esporsi è la cosa “giusta” da fare per non avere a propria volta dei problemi.

In questo scenario la libertà di parola non viene uccisa frontalmente: viene svuotata. È ancora formalmente garantita, ma il costo per esercitarla è troppo alto. Per molti, quasi tutti, non vale la pena. Così restano solo i più fanatici. E i più viscidi, che per tornaconto personale dicono la cosa che chi conta (o chi esercita violenza) vuole sentire, anche se magari sono di tutt’altra idea. Il resto tace, sfinito, intimidito, rassegnato.

Il prezzo? Il silenzio. Migliaia (forse milioni, forse miliardi) di persone che potrebbero arricchire la discussione tacciono per paura di essere triturate, metaforicamente o fisicamente. Così sopravvivono solo le voci più estreme, più rumorose, più tossiche, già screditate. I paria social(i) senza più nulla da perdere o gli influencer a cui per guadagnare basta ammansire la propria parte fedelmente schierata. Una società ridotta a stadio: curve urlanti, risse, zero dialogo.

È questa la lezione dimenticata, da molti probabilmente mai imparata: la libertà di espressione non serve a proteggere le parole che ci piacciono, ma quelle che ci disgustano. E invece la libertà di parola viene difesa a giorni e soggetti alterni, sempre e solo quando conviene al proprio campo ideologico. Chi la invoca per proteggere un intellettuale dissidente, la nega l'indomani per mettere a tacere un rivale. La libertà diventa così un feticcio da brandire, non un principio da difendere.

Non c’è pluralismo, ma rumore. Non ci sono più argomenti, ma meme. La parola si è ridotta a proiettile morale da sparare contro chi dissente, o a pillola avvelenata da ingoiare per non insolentire i manovratori.

Le parole non sono più strumenti di confronto, ma armi da usare o da temere. È la democrazia del silenzio. E il silenzio, in politica come in amore e in guerra, non è mai neutro: è complicità.

E non occorre pubblicare vignette blasfeme o scrivere i Versi satanici come Salman Rushdie. Oggi si rischia un licenziamento, un bando dalle piattaforme, un linciaggio collettivo per un tweet di dieci o vent’anni anni prima. Non servono più i terroristi armati, che pure ci sono ancora: basta l’esercito degli indignati. La censura è stata privatizzata, democratizzata, trasformata in gioco di massa. Tutti agiscono da piccoli tiranni. Una democrazia che vive di gogne è già un autoritarismo molecolare.

Così, il giornalista non pubblica, l’artista non espone, il professore non insegna. Non per paura di leggi, ma per paura di perdere il lavoro, la casa, la faccia, la vita. Non è più l’Inquisizione a chiudere le bocche, a fermare le mani: sono le bocche che si serrano da sole, le mani che si tagliano da sé.

Non esiste più il diritto alla parola: esiste il diritto al coro. Si difendono le parole quando sono quelle del proprio clan, del proprio colore politico, del proprio feticcio morale. E così la libertà diventa una caricatura di sé stessa, un travestimento ipocrita. I social brulicano di insulti, di slogan. Ma non c’è dialogo, ci sono tribù digitali che si odiano come clan primitivi, che si ammazzano virtualmente. O per davvero.

Il caso Kirk è emblematico. Un uomo di 31 anni (in Italia sarebbe stato chiamato ragazzo almeno per altri venti) ammazzato in diretta, mentre partecipava a un dibattito con il motto “Provate a smentirmi”. Non l’hanno smentito, gli hanno sparato al collo da duecento metri, e mentre ancora agonizzava, i social già intonavano la litania: “Se l’è meritato”. I più, a queste latitudini, non l'avevano mai sentito parlare, non sapevano nemmeno chi fosse, ma hanno comunque sentenziato.

Da Odifreddi che cita il proverbio da scuola elementare di chi semina vento raccoglie tempesta, a Friedman che lo dipinge come un fascista trumpiano pericoloso, a Saviano che riesce a trasformare la morte di un uomo in un problema di consenso elettorale: non ci interessa che tu sia morto (anche se te la sei cercata), ci interessa che la tua morte non dia vantaggi ai nostri avversari.

Invece di denunciare il delitto, una larga parte della stampa (quella che si proclama paladina della libertà di parola) ha preferito rinfacciargli vecchie frasi, vere o presunte, come se l’assassinio fosse un giudizio morale esecutivo.

Siamo disposti ad ascoltare chi ha idee diverse da noi, o preferiamo vederlo morto, aizzando le folle finché qualcuno poi preme il grilletto o infila la lama? La domanda è retorica, perché la risposta l’ha già data il mezzo mondo che ha gioito per l’omicidio di Kirk.

Se non la pensi come me, non solo non meriti di parlare, non meriti nemmeno di vivere.

È questo il nostro futuro? Un eterno ritorno di un medioevo di roghi, cacce alle streghe, condanne senza processo? No, è il nostro presente. Senza offesa per il Medioevo, altrimenti magari ci uccide pure quello (tra l’altro almeno il Medioevo ha prodotto cattedrali e testi durati nei secoli, anziché solo puttanate effimere sui social).

E così, mentre ci vantiamo di essere più civili, restiamo tribù con le clave, villani con i forconi. Solo che le clave e i forconi oggi hanno il Wi-Fi e Internet senza limiti.

Non serve più il boia, basta la massa. Non serve più la censura ufficiale, basta l’autocensura preventiva. Non servono più le catene, basta la paura di perdere un contratto, un follower, una cattedra. Non servono più i tribunali, basta il massacro mediatico, quando non corporale. E, se proprio non capisci, poi arriva la pallottola come per Kirk o il coltello come per Salman Rushdie.

Charlie Kirk
Charlie Kirk Ansa

Cosa abbiamo imparato

Abbiamo davvero imparato qualcosa in vent’anni? Abbiamo imparato che non serve più uccidere i vignettisti: hanno già imparato cosa non vedono disegnare. Non serve più abbattere i giornalisti: hanno già capito che non possono rischiare. Non serve più minacciare lo scrittore: sa già che nessuno tra chi conta lo difenderà. Non pubblichiamo più vignette, non pubblichiamo più immagini, non pubblichiamo più parole: perché sappiamo cosa succede. L’omertà ha smesso di essere un vizio mafioso, è diventata una virtù sociale.

Com’è andata a finire per la libertà di espressione? È andata a finire male, perché non abbiamo più bisogno di censori esterni: siamo diventati i nostri stessi censori, incorporati. È andata a finire male, perché abbiamo confuso rispetto con timore, sensibilità con obbedienza, prudenza con paralisi.

La libertà non è un diritto che si esercita senza conseguenze. È un atto di coraggio, di rischio, di esposizione. È dire l’indicibile e sopportarne il peso. Oggi, invece, viviamo in una democrazia dove nessuno, salvo forse personaggi già emarginati e ridicolizzati, osa più parlare per paura di sbagliare opinione.

Ma una società ammutolita non è pacificata. È una società che ha già accettato la propria sconfitta.

La lezione appresa è questa: si può dire tutto, purché non dia fastidio a nessuno che conti davvero o a qualcuno che sia abbastanza folle o motivato da rovinarti o toglierti la vita perché lui è convinto di una cosa diversa. Una libertà di cartapesta, utile solo per i convegni e le commemorazioni. Il resto è terrore, e il terrore non si vede, ma governa.

https://mowmag.com/?nl=1

More

Matteo Renzi è diventato Matteo Salvini o il Capitano ha hackerato il Rottamatore? Tra tolleranza zero, buonismo, valori italiani, carabinieri, Trump, Gaza e Flotilla, chi è chi?

di Matteo Cassol Matteo Cassol

E grazie ai carabinieri

Matteo Renzi è diventato Matteo Salvini o il Capitano ha hackerato il Rottamatore? Tra tolleranza zero, buonismo, valori italiani, carabinieri, Trump, Gaza e Flotilla, chi è chi?

“L’AMMAZZO”. Perché se lo dice Maria Concetta è Temptation Island e se lo dice Angelo è violenza di genere?

di Matteo Cassol Matteo Cassol

Parità degenere

“L’AMMAZZO”. Perché se lo dice Maria Concetta è Temptation Island e se lo dice Angelo è violenza di genere?

Landucci (vice di Allegri al Milan) sessista e “patetico” (Parenzo) per i complimenti a Monica Bertini e perché “noi vecchia generazione preferiamo le donne”? Rispondono Cruciani e Capezzone

di Matteo Cassol Matteo Cassol

Galanteria portaci via

Landucci (vice di Allegri al Milan) sessista e “patetico” (Parenzo) per i complimenti a Monica Bertini e perché “noi vecchia generazione preferiamo le donne”? Rispondono Cruciani e Capezzone

Tag

  • Attualità
  • Politica
  • Libertà
  • Censura
  • Charlie Hebdo
  • Cultura
  • Politicamente corretto

Top Stories

  • Ultimo dimagrito? Non rompetegli il caz*o. Ennesima presunta crisi con Jacqueline? Non siete attenti ai dettagli, perché a Londra…

    di Giulia Ciriaci

    Ultimo dimagrito? Non rompetegli il caz*o. Ennesima presunta crisi con Jacqueline? Non siete attenti ai dettagli, perché a Londra…
  • Al Teatro San Carlo si indaga per peculato sulle nomine poco trasparenti che abbiamo tirato fuori nella nostra inchiesta. Ecco tutti i nomi che abbiamo fatto in questi mesi. E De Luca attacca Manfredi: “Coperto di vergogna”

    di Giulia Ciriaci

    Al Teatro San Carlo si indaga per peculato sulle nomine poco trasparenti che abbiamo tirato fuori nella nostra inchiesta. Ecco tutti i nomi che abbiamo fatto in questi mesi. E De Luca attacca Manfredi: “Coperto di vergogna”
  • Altri dubbi su Michele Sorrentino Mangini, Direttore artistico delle Officine San Carlo: incarichi in due conservatori, graduatorie e punteggi poco chiari. E per l’incarico a Vigliena ha l’autorizzazione?

    di Riccardo Canaletti

    Altri dubbi su Michele Sorrentino Mangini, Direttore artistico delle Officine San Carlo: incarichi in due conservatori, graduatorie e punteggi poco chiari. E per l’incarico a Vigliena ha l’autorizzazione?
  • I lavoratori del San Carlo fanno un esposto bomba: Viviana Jandoli assunta perché suo padre ha donato tramite la Banca d’Italia 80 mila euro alla Fondazione. Ma è vero? Dove sono le prove? Ecco cosa sappiamo

    di Riccardo Canaletti

    I lavoratori del San Carlo fanno un esposto bomba: Viviana Jandoli assunta perché suo padre ha donato tramite la Banca d’Italia 80 mila euro alla Fondazione. Ma è vero? Dove sono le prove? Ecco cosa sappiamo
  • Tutti parlano di Beatrice Venezi, ma nessuno del Teatro San Carlo, eppure la cosa è molto più pesante: nomine controverse, peculato, per ora un indagato e in Italia ne scriviamo solo noi

    di Riccardo Canaletti

    Tutti parlano di Beatrice Venezi, ma nessuno del Teatro San Carlo, eppure la cosa è molto più pesante: nomine controverse, peculato, per ora un indagato e in Italia ne scriviamo solo noi
  • Abbiamo fatto ascoltare Il Male, il disco degli Zen Circus, al poeta Aldo Nove. Il risultato? "Addio Vasco e Ligabue: con loro riparte la rivoluzione del rock…"

    di Aldo Nove

    Abbiamo fatto ascoltare Il Male, il disco degli Zen Circus, al poeta Aldo Nove. Il risultato? "Addio Vasco e Ligabue: con loro riparte la rivoluzione del rock…"

di Matteo Cassol Matteo Cassol

Foto:

Illustrazione AI MOW

Se sei arrivato fin qui
seguici su

  • Facebook
  • Twitter
  • Instagram
  • Newsletter
  • Instagram
  • Se hai critiche suggerimenti lamentele da fare scrivi al direttore [email protected]

Next

Ma dove sono i servizi Rai sulle proteste e la Flotilla? TeleMeloni ne parla solo in seconda serata e con Federica Sciarelli: della serie “Chi l’ha visto?” davvero…

di Irene Natali

Ma dove sono i servizi Rai sulle proteste e la Flotilla? TeleMeloni ne parla solo in seconda serata e con Federica Sciarelli: della serie “Chi l’ha visto?” davvero…
Next Next

Ma dove sono i servizi Rai sulle proteste e la Flotilla? TeleMeloni...

  • Attualità
  • Lifestyle
  • Formula 1
  • MotoGP
  • Sport
  • Culture
  • Tech
  • Fashion

©2025 CRM S.r.l. P.Iva 11921100159 - Reg. Trib. di Milano n.89 in data 20/04/2021

  • Privacy