“Se no si eccita, il porco”. In un Paese dove la tv generalista è l’ultimo parco giochi del conformismo (e delle sue ipocrisie), c’è chi può dire tutto e chi niente. Maria Concetta, 37 anni, fidanzata siciliana “verace” di Temptation Island (Canale 5), attraversa la scena elargendo minacce e insulti con la naturalezza di chi ha imparato che la gelosia femminile è vista come fuoco sacro e non come pericolosa follia. “Io l’ammazzo a questo”, dice più volte riferendosi ad Angelo, fidanzato trentatreenne, reo di aver parlato con la single tentatrice Marianna, colpevole di non essere abbastanza zerbino da renderle omaggio ogni secondo, nonostante di fatto rivendichi in modo goffo la propria scelta di fedeltà (“Se non fossi fidanzato, avresti visto una persona diversa”: apriti inferno). In un’altra scena, alla domanda che sente dire al potenziale cornificatore “A cosa brindiamo?”, la partner confinata nel capanno dei video risponde: “Al coglione che sei”. Ed evoca “Dio, le mazzate che gli do”. E nessuno, apparentemente, si scandalizza.
Tutto normale. Perché fa ridere (fa ridere?). Perché, in fondo, cosa vuoi che sia una donna possessiva, ossessiva, rabbiosa. Perché il suo “io l’ammazzo” – ripetuto, urlato, caricato di rancore – viene preso come una boutade folkloristica, una nota di colore. Ma se fosse stato Angelo a pronunciare anche solo la metà di quelle parole – se anche avesse promesso non una carneficina ma un buffetto – il tribunale popolare sarebbe scattato pavloviano, e forse anche il tribunale vero e proprio.
Un uomo che minaccia una donna, anche solo a parole, anche solo “per finta”, è già nella gabbia degli imputati: violenza di genere, punto e fine.
La Maria Concetta di turno, invece, può tutto. Può gridare, insultare, intimidire. Può definirlo “bastardo”, “toporatto”, farlo a pezzi davanti a milioni di spettatori, e nessuno si domanda se sia body shaming, se sia abuso psicologico, se sia semplicemente troppo. Tutto normale, tutto “scena”, tutto passione. Perché è donna, perché è “solo gelosa”, perché “so’ parole”, perché “è perché gli vuole bene”. E così, mentre in Parlamento si approva all’unanimità un disegno di legge che istituisce il reato di femminicidio (che suona più come l’introduzione di una disparità degenere più che una difesa della parità di genere, visto che l’omicidio e le relative aggravanti già esistono per tutti), nel reality più visto del prime time estivo si censurano i “cazzo” ma non i “l'ammazzo”, se detti da una donna.

Siamo in un’epoca fatta così: pericolosamente, crudelmente incoerente. La gelosia maschile è “malata”, la gelosia femminile è “passionale”. Se Angelo avesse controllato il letto in cerca di capelli sospetti in stile Ris come fatto regolarmente e a favore di telecamera dalla compagna, o se fosse stato lui a definire la fidanzata come una bestia inventata per l’occasione (chessò, “panteganacagna” anziché “toporatto”), sarebbe stato lapidato nella piazza mediatica e forse citato in quella giudiziaria (e quasi certamente nel comparto Codice Rosso). Avrebbero parlato di stalking, manipolazione, abuso. Così invece è solo “una donna che ama”, forse neanche la mitologica “donna che ama troppo”, perché forse “va bene così”.
Angelo, che non è un angelo ma neanche Satana, dice che la gelosia di Maria Concetta gli fa mancare l’aria, che ha rovinato la loro relazione. Angelo ha paura. Lo confessa, si vede. Una paura fisica, se non addirittura ontologica. Sa che non può difendersi, che tutto quello che può fare è subire: “Ho cercato di dimostrarle quanto sia importante per me… ma potrei sbagliare”. E lei, implacabile: “Ma io l’ammazzo a questo”. Ancora e ancora, come una nenia che nessuno vuole sentire per quello che è: una minaccia. Solo parole? Nessuna violenza fisica (per ora, anche perché i due non si sono rivisti)? Ma i maschi, giustamente o meno, non hanno più il beneficio di “sono solo parole”. Tutto ciò che fanno i maschi (anche quando dicono solo e non fanno niente) sono azioni da punire. Anche quando sono solo goffaggini, sguardi, pensieri, presunte cosiddette “microaggressioni” da catalogare e condannare a reti e corti di giustizia unificate.

Non è moralismo, di (falsi) moralisti ce ne sono fin troppi. È (vana?) richiesta di coerenza. Di provare, almeno, a chiamare le cose col loro nome. Di non nascondersi dietro il genere, il dialetto, il folklore, il carattere. Di non ridere solo se la frase arriva pronunciata da una voce (o scritta da una mano) femminile, di non giustificare il possesso solo perché forse la donna non è in grado di sottomettere fisicamente l’uomo (forse, perché la cronaca non mente, e molti casi di violenza sugli uomini rimangono celati per vergogna e omertà e stigma sociale, e perché la violenza non è solo quella fisica, che pure c’è anche sui maschi, ma anche quella psicologica, economica, morale, familiare, esistenziale). Perché, a parti invertite, probabilmente Temptation Island sarebbe già chiuso per scandalo.
Se è vero che le parole sono pietre, allora dovrebbero pesare uguale, indipendentemente dal genere di chi le lancia. Se invece pietre non sono ma solo parole, allora dovrebbero essere solo parole per tutti. Altrimenti, come dice Maria Concetta di Angelo, “ma che schifo che fa questo”.