Al Salone del libro di Torino abbiamo intervistato Vera Gheno. Sociolinguista, saggista e scrittrice italiana, nata a Gyöngyös, in Ungheria nel 1975, ha collaborato con l’Accademia della Crusca e con Zanichelli. Autrice di numerosi libri sul femminismo, la comunicazione e il linguaggio inclusivo, ha appena pubblicato Grammamanti. Immaginare futuri con le parole (Einaudi). Gheno è molto nota non solo per le sue pubblicazioni, ma anche per le sue posizioni, in particolare sull'uso dello schwa, argomento che aveva suscitato e continua a suscitare numerose polemiche. Il doppio status linguistico-politico del ruolo di Vera Gheno è stato occasione per affrontare con lei vari argomenti: dalla doppia narrazione in corso sul conflitto israelo-palestinese, alla comunicazione degli influencer come Chiara Ferragni, dalla censura sulla stampa e la mancanza di pluralismo, al lavoro delle sex worker, passando, ovviamente, dal tanto criticato schwa e dai grammarnazi.
È appena uscito il suo libro Grammamanti. Immaginare futuri con le parole, (Einaudi, 2024). Chi è una persona grammamante?
È semplicemente una persona che ha una conoscenza della lingua sufficientemente varia da potersi concedere di giocare con le parole, di usarle in maniera libera senza essere terrorizzata dall'idea di sbagliare e soprattutto senza imporre uno sguardo normativo linguistico sugli altri.
E in contrapposizione, chi è allora il grammarnazi di cui parla in questo libro?
‘Nazista’ sappiamo tutti cosa significa; grammarnazi non è un termine che ho inventato io, ma in ambito angloamericano circola da tantissimo tempo, da decenni. La persona grammarnazi vede la lingua come un insieme di regole calate dall’alto che non possono venire trasgredite, e qualsiasi trasgressione diventa un errore sanzionabile. La lingua è un insieme di possibilità.
E cos’è allora linguapiattismo menzionato nel suo ultimo libro?
Io lo chiamo linguapiattismo un po’ scherzando. È una convinzione a cui si danno dei fondamenti scientifici che in realtà è sconfessata dagli studi sulla lingua: la lingua non è un monolite, non è immobile, e anzi una lingua sana cambia costantemente nel tempo e si adegua alle esigenze della sua comunità di parlanti.
Proprio sul fatto di introdurre cambiamenti dall'alto, cosa ne pensa dell'introduzione dello schwa? Alcuni si oppongono al suo uso, tra cui per esempio Massimo Arcangeli, che ha scritto anche il libro La lingua scəma. Contro lo schwa (e altri animali) (Castelvecchi, 2022)
Intanto sono molto contenta di avere creato una filiera, nel senso che non esistono monografie sullo schwa, ma esistono, in compenso, almeno 5 o 6 monografie contro lo schwa. Quindi, sono molto contenta di aver dato lavoro a così tante persone. Però, detto questo, c'è un errore alla base che è l'idea che lo schwa sia stato calato dall'alto. Io non c’entro nulla con l'invenzione dello schwa. Lo schwa, assieme alla -u nei plurali, l'asterisco, e tutta un'altra serie di cose, è usato da almeno 10-15 anni nelle comunità queer e Lgbtqia+ senza avere chiesto il permesso a nessuno. Sono usi nati dal basso, usi nati in circoli in cui si sentiva il bisogno di trovare una soluzione rispetto al maschile sovrasteso. Dopodiché la questione da alcuni anni è esplosa ed è uscita fuori dai contesti queer con tutti i problemi del caso. Però nessuno sta cercando di imporre nulla a nessuno, è un fenomeno da osservare nella maniera più laica possibile, senza però creare argomentazioni false, come quella dell'‘inventato a tavolino’ e del ‘calato dall'alto’.
Però nella lingua ufficiale, quella sulla carta e quella della stampa, se si dovessero mescolare stili diversi (con e senza schwa), non ci sarebbe rischio di confusione, violando la cosiddetta “norma”?
Intanto, il linguaggio della stampa, soprattutto del giornalismo, è tutto fuorché normativo. In molti casi fa anche abbastanza schifo: non è un granché approfondito e variato, molto spesso ricorre sempre alle solite figure retoriche, e spesso è sottoposto a leggi che hanno più a che fare col capitalismo, che non con la volontà di informare. Il capitalismo del click per esempio: una narrazione sopra le righe di un femminicidio, in cui metto tutti i particolari gore (‘violento’ nda) perché se non li metto nessuno legge la notizia.
E la lingua nei libri scolastici?
Ovviamente ci sono dei contesti che più di altri sono adeguati a una sperimentazione linguistica. Ad esempio, il testo di una legge non lo è, per il semplice motivo che ha altre funzioni. Di testi scolastici ce ne sono di vari tipi. Esistono già dei manualetti per le scuole elementari in cui è stato usato lo schwa e non è successo nulla di sconvolgente.
Però nei testi ufficiali, nei manuali, come ci si regola?
Un problema che abbiamo in generale in Italia è la comprensibilità dei testi pubblici governativi, pratici, come guide e manuali. È un problema perché molti testi ufficiali non sono accessibili, perché sono scritti in maniera incomprensibile ai più. Ci vorrebbe un lungo lavoro di semplificazione dei testi, che già non si fa, e questo prima dello schwa. Dopodiché, io stessa quando scrivo uso lo schwa il meno possibile, perché mi rendo conto che potrebbe creare problemi di comprensione. Se mi devo rivolgere a una moltitudine mista, trovo delle circollocuzioni per evitare il maschile sovraesteso, se voglio, senza usare lo schwa. Per esempio, invece di dire “i cittadini e le cittadine”, posso dire “la cittadinanza”. Poi ci sono casi in cui circollocuzioni non ce ne sono: se parlo di una persona non binary, in italiano non ho molte possibilità, perché non abbiamo un neutro. Allora, probabilmente, in un articolo di qualche pagina, uno schwa lo userei, perché non rende incomprensibile tutto il testo. È chiaro che se lo uso ogni tre parole, sì. Diciamo che è come il peperoncino, va usato con criterio.
A proposito del maschile sovraesteso, conoscerà la polemica nata attorno a quello che ha deciso l'Università di Trento, ovvero di usare il femminile sovraesteso come messaggio di inclusività. Il maschile sovraesteso che è la norma, per esempio in un’espressione come “Siamo tutti presenti” rivolto a un gruppo misto di uomini e donne, non è offensivo per me che sono una donna; nemmeno al contrario “Siamo tutte presenti” per un gruppo misto è offensivo, ma non rischia di essere confusionario?
Confusionario rispetto a cosa?
Rispetto alla norma, a come parliamo. Introdurre questa cosa è una provocazione
Chiaro, ma l'ha detto anche la rettrice dell’Università di Trento che è una scelta provocatoria: l’intento non è di creare una nuova norma, ma di fare riflettere sui suoi limiti. Nei gruppi femministi viene fatta questa scelta da almeno trent’anni e non è raro che si parli di ‘compagne’ anche in un gruppo misto. Perché ancora oggi il femminile sovraesteso deve valere come provocazione? Come mai il maschile è la norma? Sento molti linguisti e linguiste che si fermano a questo livello di pensiero: il maschile universale è la norma. Ok, e io ti chiedo perché lo è?
Lo è per ragioni sociali
Sociali e culturali, ma non linguistiche. La nostra società è tradizionalmente androcentrica e lo riproduce anche all'interno della lingua. Può continuare ad andare bene? Probabilmente sì, ma in questo momento storico, in cui si discrimina così tanto per questioni di genere o di orientamento sessuale, ribadire il “Buonasera a tutte e tutti” o il “Buonasera a tutt*” è un modo per sottolineare l'esistenza di una questione. Possiamo poi tutti insieme tornare pacificamente all'uso universale del maschile senza problemi? Sì, ma quando le questioni di genere non saranno più un motivo per discriminare le persone.
Secondo lei la lingua italiana è conservatrice? Per esempio, alcuni si oppongono all'introduzione dei femminili per professioni come sindaca, avvocata, che in realtà esistono già nella lingua spagnola
No, anche in italiano esistono da sempre. Solo che in alcuni casi non sono mai stati usati perché non c'erano persone da chiamare.
Per esempio, Giorgia Meloni vuole farsi chiamare il Presidente
Giorgia Meloni è di destra e il suo comparto politico ha sempre rivendicato l'uso dei maschili in forma sovraestesa, perché promulgano una visione tradizionalista della società e il mantenimento dell'ordine patriarcale. Quindi il maschile è visto come più di prestigio rispetto all'uso del femminile, per ragioni sociali.
Questo dimostra che la lingua italiana è conservatrice?
In generale le comunità linguistiche sono conservative: si riproduce ciò che abbiamo imparato a scuola, ed è normale essere possessivi nei confronti di ciò che si sa e che si ritiene universale. L'uso dei femminili è giustificato dal fatto che adesso ci sono donne in ruoli apicali e in professioni che fino qualche decennio fa erano appannaggio maschile. C’è un movimento gentile, di incoraggiamento a livello ufficiale, per esempio, dando la possibilità di usare i femminili su alcuni siti istituzionali. Apprezzo le scelte come quella della Università di Bologna che declina tutti i titoli, da ‘ricercatore’ e ‘ricercatrice’, a ‘professore ordinario’ o ‘professoressa ordinaria’ sul proprio sito, ma lascia anche la possibilità di scegliere come farsi chiamare, senza vietare se una persona invece ci tiene a usare il maschile sovraesteso.
Lei è anche madrelingua ungherese e traduce dall’ungherese. Per la percezione di un italiano, siccome la lingua ungherese è della famiglia ugrofinnica, non assomiglia alle altre lingue parlate in Europa ed è “incomprensibile”; per cui dall’esterno anche la mentalità ungherese, anche dopo il caso di Ilaria Salis, appare come chiusa. È così?
Ha a che fare col fatto che l’Ungheria è un Paese piccolo, ma molte persone credono nel mito della “grande Ungheria” che è stata privata dei suoi territori. Ma la lingua non c’entra, non dà una visione della società. Nel contesto delle lingue ugrofinniche abbiamo però anche il finlandese: in Finlandia già trent’anni fa le persone omosessuali lavoravano in università, - omosessuali dichiarati, e in Italia non succedeva - mentre in Ungheria è quasi illegale essere omosessuali. Sono lingue dello stesso ceppo linguistico, ungherese e finlandese, entrambe prive di genere, ma con diverse attitudini.
Nella sua presentazione è stato detto che “l’atto linguistico è politico”. Pensando alle polemiche sul caso Scurati e la libertà di parola, secondo lei la comunicazione sta subendo una censura?
Forse nell’editoria o nella possibilità di fare conferenze su certi argomenti, la longa manus di una certa visione non si è ancora estesa del tutto; ma è indubbio che, soprattutto in televisione, si sta assistendo al tentativo di far passare una determinata lettura della realtà. Io mi salvo perché non ho la televisione, non guardo mai i telegiornali, però le poche volte che mi capita sento che si porta avanti una certa narrazione. Tutti i governi l'hanno sempre fatto, ma in questo momento, più che in altri, vedo un timore del pluralismo e una tendenza a silenziare.
Ovvero?
Vorrei far notare che il più grosso scandalo in questo momento, per me, è il modo in cui viene narrata la questione della striscia di Gaza. Perfino nella narrazione dei morti delle due parti si usano termini diversi: in un caso si parla di ‘morti’, come fossero morti misteriosamente; nell'altro si parla di ‘vittime’. Piccola differenza, ma c'è un mondo semantico dietro: vittima implica che qualcuno ti ha ammazzato, morto implica che sei morto. Mi rendo conto che c'è qualcosa che puzza nel momento in cui devo per forza andare a cercare fonti alternative per capire cosa sta succedendo.
Durante la presentazione del suo libro si è parlato anche di Chiara Ferragni e lei ha detto: “Io sono pro Chiara Ferragni e sono contro tutta la merda che le sta piovendo addosso” E poi “L’influencer ha il potere di inventare qualcosa, noi no. Può inventare delle parole, noi no”. Cosa intendeva?
Sulla questione Ferragni, penso che per quanto possa aver fatto cose illegali, un errore di comunicazione o cose oscure, per cui deve pagare, mi dispiace che questo arrivi a squalificare tutto quello che questa persona può aver fatto nella vita e che diventi il capro espiatorio di un intero settore, che è quello degli influencer. In tutti i settori, anche fra scrittori e scrittrici, cantanti, ci sono persone in gamba e pezzi di merda, ma essere influencer non vuol dire automaticamente essere un pezzo di merda. Non condivido la divinizzazione precedente, né la satanificazione attuale. Sono contraria alla lapidazione pubblica a cui vedo che troppe persone aderiscono con leggerezza, finché non capita a loro. La questione che gli influencer “inventano parole” era una battuta su quello che pensavano i bambini con cui avevo interagito, che vedono gli influencer come persone con capacità divine, compresa quella di creare parole nuove.
A proposito del MUNDI (Museo Nazionale dell’Italiano) di Firenze, nella sua presentazione ha detto che il museo è “un posto dove si mettono le cose morte” ed è stata molto critica, anche dalla Crusca. L’idea di fare un museo per raccogliere una testimonianza sulla lingua non è apprezzabile? La lingua di oggi non sarà la stessa tra 50-100 anni, per cui salvaguardarla non è una cosa negativa
Ma sul salvaguardare, mica è una specie protetta. La lingua è una cosa viva. Come ho detto in un articolo che aveva creato un po’ di scandalo, più che salvaguardare – riconosco che ho un giudizio negativo sui musei – mi chiedo, chi è che cura l’esposizione al MUNDI? C’è sufficiente diversity fra le persone che curano l'esposizione? Per quello che so, anche solo dell'Ateneo della Crusca, ho la sensazione che, come al solito, ci sia un solo punto di vista prevalente, anche se per fortuna iniziamo a renderci conto che i punti di vista possibili sulle cose sono tanti. Per esempio, ci sono due bellissimi libri di Johnny L. Bertolio, Controcanone e Sottostorie, dedicati alla letteratura e alla storia dal punto di vista dei vinti: donne, persone schiavizzate, razzializzate, persone con disabilità. Mi piacerebbe un museo della lingua italiana in cui si tenesse conto anche delle parti marginalizzate della società. Se il MUNDI riproduce un solo punto di vista, quello canonico, quello etero cis patriarcale, tradizionale, penso sia una testimonianza parziale.
Chi decide come modificare la lingua?
La massa dei parlanti. Siamo noi, e soprattutto in Italia non c'è nessun ente che lo gestisca dall'alto. Anche l'Accademia della Crusca ha un potere descrittivo e non prescrittivo: può suggerire delle direzioni, ma non imporre qualcosa. Faccio notare che così come non si può imporre un cambiamento, non lo si può neanche vietare, è una cosa importante da ricordare.
Le parole possono cambiare il mondo?
Le parole possono aiutare a vedere il mondo da una luce diversa. Ci sono parole che effettivamente cambiano la realtà: per esempio se un poliziotto dice “Ti dichiaro in arresto”, quell’atto linguistico comporta davvero che vieni arrestato; ma se lo dico io, che non sono nessuno, non è lo stesso, o anche chi fa i matrimoni e dice “Vi dichiaro marito e moglie”. Quindi, ci sono casi in cui le parole cambiano la realtà. In tutti gli altri, quello che le parole possono fare è aiutare a vederla da punti di vista inediti, differenti da quello standard, e nel fare questo magari farci venire voglia di cambiare anche la realtà; l'effetto sulla realtà è indiretto. Per esempio, se inizio a chiamare sex work la prostituzione, sto cercando di far passare un determinato punto di vista: farti baluginare l'idea che se è il mestiere più antico di sempre, un motivo ci sarà e che sarebbe più produttivo, anziché eliminare la prostituzione, regolamentarla ed eliminarne lo sfruttamento. Questo lo posso ottenere anche attraverso una manovra linguistica: usare sex work, ‘lavoro sessuale’, invece di prostituzione.