La storia è vera. 1968, Giappone: un tizio vestito da sbirro, o meglio, da ciò che un giapponese dell’epoca avrebbe riconosciuto come l’Autorità incarnata, si avvicina a un furgone blindato con dentro 300 milioni di yen destinati agli stipendi. “C’è una bomba sotto la vostra auto. È già esplosa quella del direttore. Lasciate fare a me”. I portavalori, ligi come samurai in tempo di pace, scendono obbedienti. L’uomo si infila sotto il mezzo, fa esplodere un fumogeno, urla “La bomba!”, sale sul furgone e svanisce. Lupin III si inchina, Berlino della Casa di Carta può solo accompagnare, come si diceva nei meme del decennio scorso. È il 10 dicembre 1968, e da allora il Giappone non ha più dormito tranquillo. La polizia mobilita l’intero paese: oltre 171 mila agenti, più di 117 mila sospettati interrogati. Nulla da fare: il ladro, quello vero, non lo becca nessuno. A rimetterci non è la banca, protetta da un’assicurazione straniera, bensì l’opinione pubblica giapponese: ferita nell’orgoglio, ipnotizzata dal mistero, ossessionata da un’identità impossibile da incastrare in un identikit. La faccia del finto poliziotto, ricostruita a mano e diffusa ovunque, diventa un’icona di carta del disonore nazionale e contemporaneamente, come sempre accade in questi casi, un idolo da venerare.

A prendere in mano il filo di questa storia, un giallo con risvolti filosofici, è Tommaso Scotti, romano trapiantato a Tokyo e autore di romanzi noir sempre più giapponesi, nel sangue come nella forma. Nel suo ultimo libro, Il segreto del vecchio signor Nakamura, edito da Longanesi, Scotti non cerca il colpevole come lo cercherebbe un cronista d’assalto: lo evoca come farebbe il mago di un manga shonen. Il pretesto narrativo è un’intervista immaginaria a Nakamura, poliziotto inventato ma assemblato con pezzi veri, che, cinquant’anni dopo il furto, guida una troupe televisiva tra i quartieri di Tokyo, raccontando i dettagli del caso e lasciando che sia il lettore, se vuole, a decifrare l’enigma. Contemporaneamente, nello svolgersi delle indagini, c'è anche un affresco di vita giapponese, di cultura. Il vuoto lasciato dal caso irrisolto è un appello, raccolto da Scotti, alla creazione. L'arte, in generale, è riempimento, e il bello della letteratura è ben questo: come nel kintsugi, ricostruire i frammenti di un evento, tenendo insieme i pezzi con la fantasia a fare da collante. In questo caso, a maggior ragione, perché già la rapina da cui nasce tutto è un'opera d'arte.

Non c’è la pretesa di verità assolute, nel libro di Scotti. C’è invece un gusto dichiarato per l’allusione, l’indiretto, la stratificazione simbolica. “Una delle prime cose che noti quando vivi in Giappone”, ha spiegato Scotti stesso in un'intervista a Repubblica, “è quanto i giapponesi amino esprimersi in modo obliquo. Ho voluto rendere questa qualità una leva narrativa”. Il risultato è un’indagine quasi filosofica, dove i personaggi il ladro e il poliziotto, sono speculari. Certo oggi non avrebbe avuto vita facile, il ladro, tra telecamere e tracciabilità: la tecnologia avrebbe reso futile lo svolgersi della semplice genialità dell'impresa, e ciò la rende ancora più affascinante. Perché un furto come quello del 1968, per come è stato messo in atto, e che lo si voglia o no, suscita ammirazione. Un'opera di bravura, di intelligenza, di capacità d'esecuzione. Minima spesa, massima resa. Tanto che il caso, ormai, lo si può risolvere soltanto romanzando, immaginando un detective all'altezza del ladro. Un ladro, in questo caso, che ha la statura del genio: ha realizzato un'impresa impossibile nella maniera più stupida che aveva a disposizione. E ce l'ha fatta. Da italiani, non possiamo che applaudire.
