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La Vela celeste di Scampia? “Edifici così dimostrano avversione e crudeltà per i poveri”. La scrittrice Veronica Tomassini racconta la sua periferia

  • di Veronica Tomassini Veronica Tomassini

9 agosto 2024

La Vela celeste di Scampia? “Edifici così dimostrano avversione e crudeltà per i poveri”. La scrittrice Veronica Tomassini racconta la sua periferia
Il crollo del ballatoio della Vela celeste di Scampia è solo il segno più evidente della crudeltà di una società che, fin dall’architettura, odia i poveri. A partire da questa tragedia Veronica Tomassini racconta la sua periferia: “Una morte morale…”

di Veronica Tomassini Veronica Tomassini

La periferia è la mia spina nel fianco. Quando ho letto del crollo a Scampia ho pensato a un’allegoria. L’apocalisse sotto forma di fallimenti empirici, che comunque consegnano alcuni morti. Persino il nome del tempio rovesciato ha qualcosa di scritturale: la Vela celeste. Possiamo sorvolare in rassegna, avveduti e disgustati, le prossimità, le verosimiglianze a qualcosa di simile a un solco di irredimibili, ogni periferia incontrata, vissuta o schivata. Sono tutte uguali, dalla berlinese Gropiusstadt, a Librino, da Scampia a un mausoleo di Block comunisti in una città satellite delle antiche cortine, o post-sovietica, con l’identica forgia, replicabile, ossessiva, svuotata come una elegia atea. O posso pensare alla periferia che conosco, nella città in cui ho vissuto, nell’estremo sud. Buzzati li chiamava Falansteri e si riferiva alle case smangiate dalla trascuratezza, peggio che le case di ringhiera, casamenti antropomorfi, utopici, fourieriani (dal teorico Fourier). Androni bui, infiniti, un nonsense congetturato similmente, forse dalla medesima mente congeniale a un che di mefistofelico o sardonico, o tutte e due le cose. Rampe maleodoranti, afrori di cavolo rancido e mi viene in mente un racconto di Cechov, quando un malato psichiatrico dinanzi al suo esecutore muore di apoplessia, o di afrore di cavolo rancido. Cioè è una bella rilettura di quanto quel che vediamo e che viene edificato per ospitare il nostro involucro di carne, con insito l’ineffabile, detto anche spirito, può tangere e definire i contorni di un destino, che nel qual caso, nello specifico delle periferie, possiamo senz’altro risolvere in iattura. D’altronde li chiamano loculi abitativi. Loculi. Finestrelle in verticale che ansimano dentro lingue di cemento in estensione, pagine bianche figurativamente in cui non hai niente da scrivere, finiscono in terrazzamenti coibentati di solito con spregio, lanciati verso le intemperie. Ho in testa la periferia della mia città. Gabbie che tralucono tormento già solo a vederle, incassate dentro ballatoi, quadrati, tagliati con l’occhio sprezzante di un architetto con una strana idea del mondo (vi invito a guardare il corto musicale realizzato da Salvatore Fiorentino, a fine della lettura). Non soltanto classista, piuttosto giustizialista, un certo giustizialismo sociale che ragiona per avversione, ragionevole avversione per il povero, l’insufficiente, per cui meriterebbe l’offesa di disperarsi congruamente nel preciso incastro di casamenti. Le periferie e i canaloni di fogna, il mare di mercurio e le silhouette di gas miasmatici oltre i pontili con le petroliere e i calanchi vilipesi dai signori del denaro. Con le loro belle valigette e la pancia piena di merda (qui cito liberamente il concetto espresso dall’amico musicista Carlo Muratori nel brano dedicato a Marina di Melilli, nda).

La Vela celeste di Scampia
La Vela celeste di Scampia
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Paramenti mortali investono la vita dei negletti, ne giudichiamo l’esistenza soltanto con il cruccio fasullo infastidito da un fatto di cronaca. Sparano, si ammazzano, eseguono con disciplina il passo che conduce alla fine. Ogni cosa è fine in una periferia, dove i negletti sono più brutti e più sporchi nel nostro pregiudizio segreto, a cui affidiamo le nostre convinzioni, un po’ a disagio per l’asprezza con cui le giustifichiamo. I poveri delle periferie, nella mia periferia, quella che ricordo e che ho tentato di seppellire in un romanzo (Mazzarrona), si gettavano sotto al treno, nell’unico binario che la attraversava, evocava il futuro, la possibilità, dunque era la ferocia, incastrare la possibilità (il treno) e l’irredimibile nonsense. Crudeltà, quasi pari alla crudeltà del progettista destinato a disegnare la morte morale. Cos’è una morte morale, come può accadere, si sarà chiesto costui agli albori del progetto di loculi e pagine bianche di cemento bruciato dalle intemperie e dall’insolenza dei padroni (patruni, in dialetto siciliano). La morte morale è il paesaggio smorto inchiodato dal silenzio incolore, la violenza di angiporti labirintici, i frastuoni (che sono urla o sono singhiozzi) soffocati dentro baratri con nomi sofisticati, beffardi e sentimentali. La vela celeste, ad esempio.

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