Quella che chiamerei "la versione di Peter Thiel" non è una teoria ma una scenografia: un palcoscenico su cui capitalismo, teologia e futurologia recitano insieme la stessa parte, quella di una modernità che si interroga su che cosa significhi “costruire il futuro” mentre legge l’inventario dell’Apocalisse. C’è il desiderio di sottrarre l’innovazione alla democrazia del mercato perché il mercato—quando è perfetto—non lascia margini di sopravvivenza. E infatti Thiel ripete che la competizione è per perdenti: solo il monopolio permette di pensare in grande, di oltrepassare la giornata per afferrare il decennio, di accumulare tempo oltre che capitale.
È il cuore di Competition Is for Losers, l’estratto dal suo Zero to One dove la fuga dalla concorrenza, non la sua vittoria, è posta come gesto fondativo dell’impresa che crea un mondo a sé, una nicchia talmente definita da diventare il mercato stesso, come Google per la ricerca—non perché abbia schiacciato i rivali, ma perché si è sottratta al loro gioco e ha scritto un’altra grammatica del bisogno.
Eppure in questa apologia del monopolio c’è un’eco che non viene dall’economia ma dalla genealogia dei valori, quella nietzschiana: il superuomo non compete, trascende; non contratta sulla piazza, inaugura un’altra misura, e la sua legge vale come creazione, non come accordo. È l’immagine nota a chi legga l’Übermensch dello Zarathustra, figura che segnala il passaggio da valori ereditati a valori creati, dal “si dice” a un “io voglio” capace di fondare, con la schiena alla morte di Dio e gli occhi puntati a terra, non al cielo.
Se poi prendiamo l’Anticristo nietzschiano, il bersaglio è la “morale da schiavi” che conserva il debole e squalifica la potenza, rovesciando i segni del buono in nome di un oltremondo. È qui che si apre la cruna di un ago in cui Thiel ama infilare la sua cruna, con l’idea che talvolta la retorica della sicurezza e della regolazione possa presentarsi come salvezza e invece funzionare da freno escatologico, da macchina della stagnazione.
Non è un caso che, nelle interviste più recenti, l’impianto apocalittico sia esplicito: Thiel riflette sull’“end times” alla Hoover Institution, affacciando un lessico dove l’Anticristo è un’ipotesi concettuale per leggere la promessa di pace e sicurezza come minaccia di immobilità, mentre la tecnologia—atomica, digitale, soprattutto l’Ia—ha il potenziale di accendere e spegnere il mondo con un solo gesto, quindi di farci camminare in equilibrio tra Armageddon e amministrazione globale dell’inerzia.
In questo teatro l’allievo si riconosce nel maestro: René Girard. È a Stanford che Thiel incontra la mimesi, e capisce che il desiderio umano si accende per imitazione fino alla rivalità, dove la concorrenza non è un gioco sano ma una liturgia del risentimento destinata a produrre capri espiatori. Una intuizione che traslata al business diventa strategia: non entrare nel ballo mimetico, costruisci un altrove, inventa un monopolio “buono” proprio perché non comparabile, non commensurabile alla guerra dei prezzi.
E non è folklore biografico: la fondazione Imitatio del Thiel Foundation finanzia da anni la ricerca girardiana, proprio per mettere in circolo quell’idea che la violenza nasce dal riflesso, e che solo un salto di differenza (una proibizione, una distinzione netta di compiti, un confine) spegne la miccia dell’azienda come micro-tribù in fiamme. Portando più in là la genealogia: se la mimesi è benzina sul fuoco della competizione, allora Zero to One suona come un manuale di igiene mimetica: sottrai il tuo progetto al confronto, definisci lo spazio in cui nessuno può desiderare ciò che desideri tu nello stesso modo, perché non è disponibile nello stesso modo.

E torna qui la risonanza baconiana: “human knowledge and human power meet in one”, il sapere è potere perché è tecnica di sottomissione della natura, ma in Bacon c’è già l’avvertenza che si comanda obbedendo alla struttura delle cose, non per magia, cioè costruendo un metodo che traduce cause in regole. Palantir come infrastruttura cognitiva è la traduzione industriale di questa promessa: piattaforme – Gotham, Foundry – che non vendono dati ma orchestrazione di dati eterogenei per decidere, per “scoprire” pattern e rinchiuderli in azione, dall’intelligence alla sanità, facendo del caos un oggetto navigabile e quindi governabile.
E tuttavia la linfa del progetto non è neutra: la sovranità dell’ordine affaccia anche da un’altra biblioteca, quella di Carl Schmitt. L’idea che il politico si definisca nella decisione che sospende la norma in nome della salvezza, e prima ancora nella distinzione amico/nemico, suona scandalosamente attuale se spogliata di contesto, ma Thiel la frequenta come ipotesi critica: in un mondo accelerato, la democrazia liberale è troppo lenta per decidere. Allora chi decide nello “stato di eccezione” tecnologico? E soprattutto: chi trattiene il tempo perché la storia non si chiuda?
Il katechon, figura paolina del “restrain”, il trattenitore che rimanda l’Apocalisse e ne differisce l’urto, diventa categoria preferita di Schmitt e, nei discorsi di Thiel, la si annusa come un nervo sotto pelle: contro l’Anticristo dell’uniformazione planetaria, un potere che schiaccia il pedale dell’invenzione e difende la differenza dei poli. Ma un katechon tecnico è possibile senza scivolare in teologia politica? Senza quel decisionismo che Schmitt portò alle estreme conseguenze storiche? Domande che restano aperte, anche quando si ricorda con la freddezza delle date che Schmitt aderì al nazismo—e la sua amicizia con la parola “eccezione” ha un passato che nessun futuro può cancellare.
Sullo sfondo la satira di Swift fa da camera di risonanza: Gulliver’s Travels nacque per “vessare il mondo”, non per divertirlo, e mise a nudo l’ipocrisia delle istituzioni mostrando il gioco di prospettiva tra Lilliput e Brobdingnag—ingrandire e rimpicciolire i vizi, spostare la scala per vedere la politica nella sua comicità feroce. La lettura “swiftiana” della politica come teatro di piccolezze con costumi altisonanti spiega perché un tecnologo libertario possa vedere nel governo un ostacolo più che un motore, una macchina retorica che mette decorazioni ai saltatori di corda mentre l’ordine reale è altrove, nei laboratori e nei data center.
Ma l’orizzonte morale non si chiude con la satira: a cucire i lembi sta John Henry Newman, la dottrina come organismo vivente, la fede che si sviluppa mantenendo il tipo, settenote per distinguere sviluppo e corruzione. Thiel, che in pubblico parla di Cristianesimo in termini “eterodossi” e di un ritorno alle prime e ultime cose, sembra leggere Newman come una grammatica per non scambiare il cambiamento con il tradimento: sviluppare la dottrina non è snaturarla, come sviluppare la tecnologia non è dissolvere l’umano.
Se la sua apologia del rischio contro la stagnazione è crostata di termini apocalittici, la bussola può essere proprio quella: conservare il tipo, cioè la dignità, mentre si allunga il raggio dell’azione. Da qui la domanda politica: se la competizione è mimesi di rivalità e l’innovazione una forma di ascesi che richiede isolamento dai riflessi, che cosa ne facciamo delle istituzioni?
La risposta schmittiana tenterebbe l’ordine per decreto, quella swiftiana sputtanerebbe il costume; la risposta girardiana direbbe: fermate il gioco del desiderio riflesso, create differenze; quella baconiana: fate metodo, traduzione tra causa ed effetto, non c’è magia. Tutte convergono nella tesi thieliana del monopolio sano: l’impresa che si sottrae al confronto perché si definisce come mondo, come regola, come vocabolario.

Ma qui la critica non può tacere: il monopolio “buono” suona come la virtù dei vincenti e la mimesi “cattiva” come il vizio dei perdenti. E se la mimesi è ineliminabile, l’unico modo per non esplodere è appunto un capro espiatorio; il che significa che l’architettura emotiva di un monopolio può essere la pace prodotta da una esclusione. È vero l’opposto? Che la competizione temperata –istituzioni, antitrust, standard aperti – possa produrre una convivenza senza sacrificio?
Qui l’editoriale si fa autocritico: Palantir è un esempio di potenza organizzativa che accende il lato luminoso del controllo (coordinamento, resilienza, buon governo dei dati) ma non può eludere l’ombra della sorveglianza—lo mostrano tanto i materiali aziendali quanto le analisi esterne. E dunque la domanda sul katechon diventa: chi trattiene chi, e come, e per quanto?
Se poi rientriamo nella cella nietzschiana dell’Anticristo, la mappa torna nitida: l’Anticristo di Nietzsche è un gesto che spezza la morale della compassione come sintomo di decadimento, un’invettiva contro un’etica che promette un oltremondo per negare questo mondo. Thiel se ne serve come spauracchio rovesciato: non il demone della tradizione ma l’ordine del consenso globale che, in nome del rischio zero, finisce per disinnescare la vita. È la ripetizione di un avviso: la paura del peggio produce il peggio, perché riassorbe la libertà nella burocrazia del “nessun azzardo” – e allora l’IA come frontiera andrebbe rischiata più che regolata.
Ma l’altra metà del cielo dice che senza cautela l’Ia può moltiplicare i danni, e la prudenza non è idolatria. Di nuovo Newman: conservare il tipo. Di nuovo Bacon: obbedire alla natura per comandarla. Di nuovo Girard: spegnere la rivalità prima che chieda sangue. Di nuovo Schmitt: non chiamare eccezione ciò che è solo impazienza. Di nuovo Swift: cambiare scala per vedere dove stiamo sbagliando prospettiva.
La mappa morale di Thiel, comunque la si giudichi, non si limita a dire “come fare soldi”: pretende di disegnare un corridoio tra catastrofe e redenzione dove a frenare l’Anticristo sia un katechon tecnologico, una élite di fondatori in grado di costruire mondi, non prodotti. Il rischio è che il katechon si trasformi in sovrano: decisione senza discussione. Il pregio è che riapre il tema della responsabilità del lungo periodo, in un’epoca dove la perfetta concorrenza—se mai è esistita—disintegra i margini per pensare.
E il paradosso resta il più interessante: una teologia politica travestita da manuale per startup, un libro sul monopolio che parla di antropologia del desiderio, un saggio sulla fine che insiste sul dovere di continuare. Qui, oltre le etichette, si decide il punto: non se il monopolio sia bene o male, ma che cosa vogliamo salvare quando chiediamo a pochi di costruire il mondo in cui molti dovranno abitare. E il giudizio—come in ogni buon romanzo satirico—non assolve né condanna: obbliga a guardare più da vicino, a fare zoom, a cambiare lente, perché la politica, la tecnica e la fede non stanno in tre capitoli separati, ma in una stessa frase molto lunga, che ogni giorno qualcuno decide dove spezzare e dove continuare.
