Alcuni parlano di Dogman come del miglior film di Luc Besson dai tempi di Léon. Dopo la spystory Anna e la fantascienza di Valerian e la città dei mille pianeti, Besson mette di nuovo al centro il dolore. Stavolta è il turno di Douglas, interpretato da Caleb Landry Jones, a subire la violenza di suo padre e del fratello. Tante botte, date in nome di Dio, che sembra tutt’altro che misericordioso. O quantomeno colpevole di aver donato una vita disgraziata a Douglas, che nasce nella solita, squallida famiglia ultracattolica americana, il nido perfetto dove crescere con delle cicatrici. I cani ingabbiati e maltrattati come lui, non risparmiano il loro amore quando incontrano qualcuno che ne è degno. Se ciò accade, si fidano senza condizioni: un’arrendevolezza che stupisce gli umani, incapaci di considerare la purezza di un simile sentimento. Si ritrova chiuso con loro Douglas, punito di nuovo da suo padre. Passano i giorni e il ragazzo diventa sempre di più parte del branco: anzi, si trasforma nel suo leader. Durante l’ennesima sfuriata, però, il genitore supera ogni limite sparando al ragazzo, che viene colpito di rimbalzo dal proiettile e perde la mobilità delle gambe. Da questo momento in poi, i cani diventeranno l’estensione del suo corpo (sono loro, infatti, che avvertono la polizia dell’accaduto). Poi gli affidamenti e le fasi della vita che si sovrappongono, senza trovare una quadra definitiva. Diventa proprietario di un canile, che organizza e mantiene con attenzione. Niente da fare: gli speculatori di un progetto edilizio gli tolgono anche questo. Tempo dopo, riesce a trovare un gruppo di drag queen con cui lavorare, esibendosi in un locale che è anche un teatro. Interpreta tutte le grandi stelle del passato: la cantante Edith Piaf, l’attrice Marilyn Monroe e la stella del cinema muto Marlene Dietrich. Paradossalmente è travestendosi da altre persone che riesce a trovare una sua identità. Per difendere una donna del quartiere, si mette contro un gruppo di gangster guidati da “El verdugo”: quando questi assaltano il suo rifugio, i cani e Douglas riescono a coordinarsi e a respingere il nemico. Dogman comincia dal suo epilogo e prosegue come una confessione del protagonista. Lui è già colpevole, ma mai pentito: racconta la sua storia a Evelyn, un’agente di polizia, e rivive tutti i momenti più incredibili della sua vita. L’ultimo film di Besson è un continuo avanti e indietro tra presente e passato: i dolori della biografia di Douglas sfociano nella sua attuale inquietudine.
Dopo la presentazione al Festival del cinema di Venezia di quest’anno, dove il film è stato parzialmente nascosto dalle polemiche legate alle proteste del #MeToo, Dogman è finalmente in sala. Luc Besson sembra tornato quello dei tempi migliori: quello di Nikita, di Lèon e de Il quinto elemento, dove, accanto alle riflessioni sul senso di sé e della vita, ci sono sempre quei quindici minuti di follia in cui i personaggi sparano tutte le munizioni che hanno. Anche nel suo ultimo film, infatti, non sono risparmiate le scene d’azione. Queste, però, sono solo un momento in una storia che affronta molti temi partendo da lontano: su tutti c’è l’amore onesto e incondizionato dei cani, sentimento che gli esseri umani non riescono a provare, incapaci come sono di dividere il mondo in giusto e sbagliato, odio e amore. La vita umana è più complicata e i poli di queste contrapposizioni spesso si confondono. Douglas è in cerca di qualcosa di più dell’amore che gli è mancato dalla famiglia. Anche perché l’unica volta che si è innamorato è rimasto deluso. L’insegnante che gli ha fatto conoscere Shakespeare era troppo per lui: più grande e più bella, ha preferito un uomo che poteva camminare sulle sue gambe. A lui restano solo i suoi cani, gli unici a stargli accanto fino alla fine.
Il protagonista costruito da Luc Besson, nonostante tutte le difficoltà, riesce a mantenere alto lo sguardo, rivolgendolo dritto negli occhi degli altri personaggi. Le scelte di regia non lo raccontano come un uomo inferiore rispetto agli altri: l’orgoglio e la forza sono dalla sua parte. Come Douglas, anche la colonna sonora è estremamente mutevole: c’è la voce di Annie Lennox in Sweet Dreams, il jazz di Miles Davis, le note di Marlene Dietrich e La Foule di Edith Piaf, che non ha bisogno di commenti. La ricerca di Douglas, però, è rivolta più in alto, forse verso quello stesso Dio che il fratello e il padre pregavano quando lo picchiavano. Un Dio, però, che non ha vendicato la sofferenza di Douglas: a questo ha dovuto pensarci lui stesso in prima persona. “L’unico problema dei cani è che si fidano degli umani”: senza pretendere niente e costretto a doversi guadagnare tutto con fatica, il protagonista si apre il suo varco nel mondo, consapevole della crudeltà e dell’ingiustizia che “permette ai cento più ricchi di possedere quanto il miliardo più povero”. Inutile sognare a occhi aperti. Douglas non ha bisogno di nessuna pietà. Là fuori cane mangia cane e così sarà sempre.