Queer di Luca Guadagnino, come spesso accade con i suoi film, ha ricevuto il plauso della critica ma ha incontrato un’accoglienza molto più tiepida da parte del pubblico, come dimostrano i dati relativi alle presenze in sala, decisamente scarse. Tra le varie realtà anche La Verità si interroga, con toni critici e punte di sarcasmo, sul legame e il senso, talvolta, del sistema del tax credit, un incentivo fiscale che permette alle imprese di ottenere uno sgravio sulle tasse dovute allo Stato. Tutto bellissimo. Se non fosse che, come sottolinea il giornale, accade spesso che vengano realizzate opere costose per lo Stato, ma che poi ottengono risultati al botteghino poco significativi, se non del tutto nulli. Basta pensare ai film dei registi che in queste settimane sono stati al centro del dibattito pubblico pre e post David di Donatello sul futuro e le risorse del cinema. Pupi Avati, Gabriele Muccino and company. Purtroppo proprio i loro ultimi progetti sono andati male in sala.

Qualche esempio? Queer (pare sia costato 52 milioni, di cui 17 di aiuti pubblici), ma anche Un altro Ferragosto di Paolo Virzì (costato 10,8 milioni, quattro dei quali coperti da fondi pubblici). Due film molto diversi, accomunati non solo dalla mancata riuscita al box office (entrambi più o meno sul milione di euro) ma anche da un altro aspetto essenziale. Se da un lato ci sono Burroughs e tante visioni strambe e lisergiche, dall’altro nel cinema del regista livornese si disvela una questione tutta italiana, etica e sociale. Entrambe, pur nella loro diversità, non solo sono opere interessanti, ma rappresentano il segnale che, forse, se non le scegliamo o non le comprendiamo, è perché abbiamo perso gli strumenti fondamentali per analizzare e comprendere davvero l’arte. Forse, al cinema, il pubblico cerca soltanto evasione. Perché, tra tante polemiche, il vero problema è che se nessuno va a vedere un film come La chimera di Alice Rohrwacher — inizialmente destinato a incassare la metà di quanto ha poi effettivamente registrato, grazie a un video diventato virale e condiviso dalla stessa regista — allora c’è davvero qualcosa su cui riflettere. C'è poco da fare. Manca l'educazione al linguaggio, all'arte, discorso che va ben oltre il gusto personale di ciascuno. L'importante è scegliere di vedere, e qui si dovrebbe aprire una grande parentesi anche sulla distribuzione di questi film che non vanno al botteghino, e poi criticare. Eppure il rischio è che, leggendo le dichiarazioni indignate di registi e operatori del settore — spesso autori di progetti finanziati dallo Stato, talvolta anche non riusciti — le persone comincino a pensare se non sia meglio iniziare a investire solo in ciò che garantisce un successo commerciale. Cosa vorrebbe dire? Che esclusi qualche comico italiano e un paio di registi, tutto il resto — cinema indipendente, sperimentazione, nuove voci — dovrebbe essere messo da parte. Niente più fondi pubblici solo perché “tanto nessuno li guarda”?
