Tante aspettative, forse troppo alte, per l’ultimo e più personale film di Luca Guadagnino, imbarazzantemente bistrattato agli Oscar e non solo: Queer. Perché sì, l’opera del regista di Call Me by Your Name, il lavoro tratto dal celebre classico della letteratura Lgbtqia+, Queer di Burroughs, aveva tutte le carte in regola per diventare il capolavoro che attendavamo da settembre. Nel cinema i “figli” di Guadagnino sono potentissime forme di un’arte che non si ferma a Roma, che non si arrende, e che sa essere di tutti, di tutte, dell’universo. Ciò che rimane di Queer quindi, al di là della sua straordinaria tecnica, è proprio quella sua sete rivoluzionaria e bellissima — la stessa che un tempo caratterizzava il libro e che oggi, in una società sempre più omotransfobica e corrotta, doveva necessariamente trasformarsi in un film (che speriamo venga distribuito adeguatamente). Per questo Queer è, nonostante tutto, il Manifesto che stavamo cercando. Anche se a scene straordinarie e complesse ne seguono lunghi e infiniti dialoghi. Anche se alcuni personaggi, tipo il coprotagonista del film, Allerton, poteva essere serenamente omesso. Queer è ancora una volta testimonianza di un'arte vera e potente, di un linguaggio pensato e voluto di un autore, di un’interpretazione eccezionale di Daniel Craig che si scolla finalmente di dosso una sola versione di se stesso e anche il frutto di una lenta, lunga, eccitante e febbrile visione allucinogena. Dimensione che nel film del regista di Io sono l'amore più che condurci nel suo vero io ci porta in un altro universo che conosciamo molto bene, quello “infestato” dal cinema dei Tres Amigos: Iñárritu, Cuarón e Del Toro. Un mondo che, in parte, ricorda per davvero quei tanti piccoli inferni sconnessi tra le pagine di Burroughs, che – come scriveva Ginsberg nel 1985 – lì dentro, nel suo romanzo, ci aveva messo “il suo cuore a nudo”. Ma Guadagnino, avrà fatto lo stesso?

Tempo fa il regista aveva dichiarato che, quando si trova davanti a un copione da cui riesce a visualizzare subito una storia, capisce che quel preciso film non è destinato a lui, perché “significa che tutto è conchiuso nella pagina, e questo nel cinema è un peccato mortale”. Ecco che questo discorso stavolta lo useremo per parlare di Queer, scritto non da Guadagnino certo, ma ancora una volta da Justin Kuritzkes, all'interno del quale intravediamo il regista innamorato e sensibile ma allo stesso tempo come smarrito nella stessa foresta di pensieri nel Sud America dove si troverà a un certo punto anche il protagonista Lee. Forse Guadagnino voleva dire troppe cose, forse c'erano troppe idee o aveva già visto tutto in quelle pagine del romanzo che, alla fine, anche lui s'è perso. Posto che i suoi film sono senza genere e che ognuno di essi è un affare a se stante e un nuovo capitolo, a parte qualche scena, tipo le gambe vestite e nude dei due protagonisti avivinghiati nel letto, le espressioni smarrite di un Craig ferito, le musiche calde e avvolgenti, noi di quel tratto personalissimo di Guadagnino che doveva emergere, avremmo voluto avere/ vedere molto di più. Capire, guardando il film, quello che aveva letto lui quando aveva vent'anni. Certo è che è molto, anzi troppo difficile, criticare un progetto impossibile che nasce da un testo illeggile come Queer di Burroughs. Ancor più sparare contro uno dei pochissimi registi che sanno essere grandiosi come Guadagnino, che sanno ideare e fare cinema per davvero (specie in un'annata come quella passata, in cui a trionfare agli Oscar sono stati titoli inferiori e mediocri). Ma un'altra cosa va detta, con un po' di amarezza. Ossia che tra i due lavori, Queer libro e film, una differenza sostanziale c'è. Se entrambi si perdono, nell'opera di Burroughs è la nostra immaginazione a soccorrere le frasi mozzate e i sintagmi sconclusionati, a dare senso alle allucinogene asserzioni, e a trasformarsi in vera mistica e sinestetica esperieza, il film invece ci mostra tutto, e resta ben poco da vedere attraverso. Si manifesta quello che Hermann Hesse scriveva ne La cura rispetto alla macchinosità del cinematografo, ossia che davanti allo schermo, in uno schermo, per chi guarda è tutto racchiuso al suo interno e niente va trovato. Mentre nella lettura è come se non ci fosse realmente nulla, solo sensazioni che agitano la testa ed è nel pensiero che va recuperata ogni cosa.

Dentro psichedelie, interzone, dolori assurdi e tanta voglia, con una rabbia disumana, di fare a pezzi la vita, per capire meglio quella strana cosa che è l'incontenibile storia di Queer - romanzo, ricordiamo un aneddoto che coinvolse il suo scrittore: William S. Burroughs, che nel 1951 sparò e uccise accidentalmente la sua seconda moglie, Joan Vollmer, proprio a Città del Messico, mentre – pare – i due stavano giocando a una sorta di “Guglielmo Tell”, in cui Joan avrebbe dovuto tenere un bicchiere sulla testa e Burroughs avrebbe provato a colpirlo con una pistola. Più tardi scriverà: “Sono giunto alla tremenda conclusione che non sarei mai diventato uno scrittore se non per via della morte di Joan”. Ecco che nella vita, come nel libro e ora dentro al film siamo vittime di un'allucinazione interminabile. Di un uomo, Lee, al centro di una scoperta famelica, che divora ogni istinto, ogni scoperta, ogni vizio e corpo. Il suo, quello dell'altro. Noi, di fronte alle pagine e allo schermo, senz’armi, ci lasciamo andare, come fossimo anche noi drogati di fronte a un gioco pericolosissimo ed eccitante che, nelle sequenze di Guadagnino, continua comunque a esprimere una rivoluzione. Perché anche se il film non ci ha del tutto convinto è arrivato in Italia, tardi – per chissà quale motivo – ma è pur sempre arrivato. La speranza ora è che venga visto cosicché, nonostante tutto, la qualità si alzi, la voglia di essere realmente sovversivi cresca, la cultura si elevi, la gente apra gli occhi sulla complessità della vita. E si spera che, al di là della censura di cui il film è stato vittima in Turchia, la forza della materia, l'avventura di Lee venga conosciuta. Oggi, che a proposito di diritti, pare davvero di essere in un incubo.
