C’era il nudo. Sì, c’era. Dove, come in un romanzo picaresco, si racconta appunto della sparizione del nudo, d’ogni piena nudità, la cancellazione d’ogni monte di Venere, quindi, sia detto con umana prosaicità, della “fica” e del “cazzo”, suo collega, dirimpettaio. In cambio, al mondo, allo sguardo, sono rimasti i collant di Bianca Censori, moglie al guinzaglio di Kanye West, rapper imperiale, travisato da metronotte, come in una storia di Pinocchio virata al nero opaco. D’improvviso, nottetempo, poco giorni fa, su Canale 24, dominio Mediaset, ha bussato alle mie pupille un film minore, misconosciuto, con Alberto Sordi, sua anche la regia: “Il comune senso del pudore”, quadricromie del 1976, un anno appena dopo la morte di Pasolini, sentore di fotobuste invitanti sotto le pensiline delle sale. Il paesaggio cittadino nostrano, capitolino, segnato dal verde Atac dei suoi bus, livrea del tempo dei bigliettai con cappello e obliteratrice in pugno ancora a bordo, la Roma dei “bujaccari”, e poi eccolo, Sordi, piccino condòmino, metti, di Tor di Nona o via di Panico che, in compagnia della consorte “buzzicona”, s’incammina per andare al cinema; svago serale, le sigarette ancora concesse in sala, lo schermo che subito, oltre la tenda e la torcia della maschera, si illumina subito di mille culi, nel tempo intatto dei mille “Decameron” apocrifi, pronti a fare il verso all’originale pasoliniano; Boccaccio trasfigurato tra “Caballero”, “Le Ore”, “OV” e “OS”, “Fermoposta”, “ABC”, sebbene quest’ultima testata, seni e culi a parte, combatteva le battaglie radicali divorziste.
In quei giorni la moda ha appena imposto il cosiddetto “nude look”, ostentazione da red carpet o passerella, il pudore infine quasi cancellato, solo un po’ velato di nero trasparente, lutto tra le lenzuola, peluria pubica lucente, le ascelle solo appena depilate; il corpo, la nudità affermati come doverosa ostentata “naturalezza”, una battaglia, defilé politico desiderante iniziato, cosa nota, nel fango del pratone di Woodstock; altra questione, altro discorso le foto della contessa Anna Fallarino in Casati e del marito Camillino, anche l’aristocrazia “porcona” affermava allora l’amore libero, a loro modo non meno politicamente, almeno a leggerne il diario privato.
Gli scialli neri della “terra del rimorso” mostrati dall’etnologo Ernesto De Martino infine sconfitti, le prefiche e le streghe di Melissa, di Montescaglioso o di Partinico, quest’ultimo luogo di nascita degli antenati di Frank Zappa, infine idealmente fucilate sul parapetto del lungolago di una non meno ideale Dongo dall’immediatezza carnale che innalza il volto di Florinda Bolkan a quello della saponificatrice di Correggio e forse della stessa Petacci; la Bolkan che nel film marcato Sordi veste i tailleur d’editora di un rotocalco “porno”, anzi, “pornografico”, così quando i jeans erano ancora “blue jeans”, cognome e nome.
Cinquant’anni dopo le seconde e terze visioni, sconfitto anche il videoregistratore, il nuovo indice moralistico, supportato dal giansenismo femminista sembra avere cancellato ogni sentore, ogni oba-oba di nudo pubblico, ostentato, affermato come “joie de vivre”, consapevolezza dell’impermanenza delle cose, delle vite, d’ogni esistenza. D’altronde anche Cesare Zavattini, ne “Il giudizio universale” ha cura di mostrare un omino supplice che nella certezza dell’imminente fine - alle 18.00 in punto - prova a proporre alle passanti sconosciute furtive fornicazioni immediate, sveltine in piedi, “chiavaggi” risoluti da ballatoio nella certezza che la scopata finale sarà presto interrotta dalle trombe, appunto, del giudizio divino.
Nessuno ha più sentore di un tascabile, copertina gialla, pubblicato nel 1971 dall’editore Samonà e Savelli, “La lotta sessuale dei giovani” di Wilhelm Reich. E magari lo stesso Helmut Newton, le cui modelle, sul finire dello stesso decennio dei Settanta, hanno finalmente aperto le gambe, la vulva in primo piano, affermata al pari del seno e del culo, cancellando la vergogna delle pecette della censura…
E ora? Il seno, il culo, la fica, il cazzo nel frattempo eccoli alla sbarra, convocati dall’inquisizione post-femminista in nome dell’ossessione moralistica travisata da progresso civile e culturale, fine del maschilismo e del patriarcato, lo schwa come strumento, manganello dell’autarchia linguistica femminile, il piacere cancellato… Oh, sì, oh, sì, che ditalini tristi... Un mondo cancellato, lo stesso già mirabilmente antologizzato in modo monografico nelle pagine di “Phototeca”, enciclopedismo dell’illustrazione a cura di Ando Gilardi, quadricromia di una leggendaria pubblicazione tematica dove l’intera “iconosfera” si annuncia nella sua evidenza, cominciando proprio dal “nudo e crudo” infine trionfale e trionfante.
Sono tornate le pecette della censura, emoticon e cuoricini in luogo dei rettangoli neri
Tornando ancora alla pellicola di Alberto Sordi, lì ogni tentativo di trovare un film che non sia “licenzioso” appare frustrato, ovunque in città cartelloni che, diversamente dal Cristo, volto da pistolero vendicatore del West, trascinato da un elicottero nel cielo romano dell’anno santo del 1950 che apre “La dolce vita”, mostrano, appunto, nudità femminili, l’apoteosi, un diorama di fiotti segreti e intuibili di “sborra”, insieme allo squirting delle protomartiri del piacere, cose che il moralismo catto-fascio-comunista reputa oscene.
Qualche anno prima, alcuni ne avranno memoria, a Palermo, un solerte pretore, Vincenzo Salmeri, così il nome sulla linea puntinata dei documenti d’identità poliziesca, porterà in stato d’arresto una ragazza in hot pants, una turista danese a spasso in piazza Politeama, incriminandone il culo, le chiappe, meglio, le “felle”, come usa dire il popolo di Sicilia. Il medesimo signor pretore denuncerà anche una coppia di ragazzi, scovati appartati, sempre nottetempo in auto, una Fiat 500, temo, la leva del cambio a frapporsi tra “sticchio” e “minchia”, in un vialetto buio di Mondello; lei, la peccatrice, era figlia di un barone fra i più cari amici di mio padre Ignazio; Salmeri sopravvive ancora adesso, intatto come Biancaneve, in una teca Rai di cristallo nero, anzi, color grisaglia, in una remota puntata di “Acquario” di Maurizio Costanzo, 1979. Il Salmeri, trovandosi davanti Ilona Staller armata d’orsacchiotto da Cicciolina, pronuncerà: “Sì, la riconosco più che altro mi suscita disgusto”.
Qualcuno così lo ritrasse: “È un uomo piccolo, rotondetto, che veste calzoni sempre un po’ troppo lunghi e giacche sempre un po’ troppo larghe. Vive in un appartamento ‘borghese’, con i mobili ‘in stile’, i divani di velluto spesso, offre brandy, agli ospiti.” Chissà cosa daremmo per riportarlo tra noi e ottenere i suoi pensieri davanti a una pagina segnata dallo schwa.
La cancellazione progressiva del nudo, dell’evidenza del “cazzo” e della “fica”, mi fa pensare a un altro film “Vedo nudo”, con Nino Manfredi, 1968, pellicola che oggi sarebbe impossibile immaginare, perfino come semplice parodia, sono infatti tornate ovunque le pecette della censura, emoticon e cuoricini in luogo dei rettangoli neri, a fronte di tutto questo ecco la prateria del porno dove invece ogni cosa si mostra nella sua evidenza, pubblica e insieme clandestina, a favore del popolo di onanisti, seghe e ditalini, d’altronde, come recita un celebre canto goliardico, “oh popolo bruto, su snuda il banano, non vedi che arriva l’amato sovrano?”
Se solo, come sempre immagino, esistessero gli angeli facchini magazzinieri e, sempre nottetempo, provassero a scostare le facciate dei palazzi ne vedremmo a decine lassù, tra ammezzati e attici, a masturbarsi, la sborra infine racchiusa in un triste Kleenex; una tisana, e via, a letto.
Ma il nudo, proprio il nudo, nella sua forma assoluta, immediata, essenziale, umana resta in castigo, negli abissi della rete. Per ritrovare la fica, mostrata, gambe aperte, occorre andare a far visita, su YouPorn o che dir si voglia, a Valentina Nappi che pronuncia il suo editoriale carnale contro le “fiche di legno” e ancora, rivolgendosi alle femministe gianseniste, suggerisce a tutte loro: “Datela!”
Michela Murgia, indice ammonitore sollevato nell’ideale ex voto punitivo letterario queer contemporaneo
Il ricatto di un presunto maschilismo, di una presunta spettacolarizzazione inaccettabile del corpo femminile a sovraintendere questa nuova inquisizione, l’immagine della badessa Michela Murgia, indice ammonitore sollevato nell’ideale ex voto punitivo letterario queer contemporaneo, a sostituire il poster dell’anarchico che, ceppi ai polsi, ride in faccia agli sbirri: “Una risata vi seppellirà”, il distico.
In una versione più banale, la bassista dei Måneskin, Victoria, innalza lo sticker della campagna “Free the nipples”, piccole soddisfazioni di una socialdemocrazia spettacolare destinata alla nudità glamour. Il resto, ogni altra cosa, ricacciati nella caverna presuntamente platonica della pornografia. Nuovo moralismo vittoriano, ricordando il tempo della regina omonima che pretese i calzoni anche per le gambe dei tavoli in salotto; in Spagna, il regime franchista imbevuto di clerico-fascismo, impose invece i calzoni ai crocifissi lignei.
Salvador Dalì, a Parigi, portava a spasso al guinzaglio, con solennità regale, un formichiere; ora, al mondo dello sguardo, come già detto, rimangono i collant di Bianca Censori, consorte al pubblico guinzaglio di Kanye West, rapper travisato da addetto allo spurgo dei pozzi neri.