Lettera aperta a un agostiniano (di un tomista riconoscente, ma non convertito)
Caro Riccardo
ho letto con sincera ammirazione il Suo Il pensiero di Papa Leone XIV. Dalla filosofia di Sant'Agostino al pontificato che verrà (Diarkos, 2025), in cui il pensiero agostiniano viene restituito con rigore e passione, non come oggetto da museo, ma come interlocutore vivo, inquietante, attuale. Gliene sono grato. È raro incontrare un’opera che sappia coniugare profondità esegetica e vibrazione esistenziale, dottrina e pathos.
Confesso che, da tomista, ho affrontato la lettura come si entra in casa d’altri: con rispetto, con attenzione, ma anche con una certa vigilanza. Mi ha colpito, e in certi momenti anche toccato, la coerenza del Suo ritratto di Agostino: filosofo dell’interiorità, teologo della grazia, testimone del limite. E soprattutto, il modo in cui Lei rilegge Agostino alla luce del suo platonismo cristianizzato, facendone quasi un ponte tra l’Idea e la Rivelazione, tra il mondo iperuranico e il Verbo incarnato. Ecco, forse è proprio lì — in quella luce platonica — che si apre la nostra differenza. Come Lei ben sa, Tommaso — pur conoscendo e stimando Agostino — compie una scelta diversa. Egli eredita la ragione greca attraverso Aristotele, non attraverso Platone. Se Agostino ascende al vero ritirandosi nell’interiorità dell’anima, Tommaso discende nel reale, convinto che l’essere delle cose parli di Dio tanto quanto (e talvolta più chiaramente) delle nostre introspezioni. La verità, per Tommaso, è adaequatio rei et intellectus, non illuminazione improvvisa ma paziente corrispondenza. Platone diffida del sensibile, Agostino teme il tempo; Aristotele ama l’ente concreto, Tommaso lo studia con fiducia.

E proprio qui — nella differenza tra l’itinerario interiore agostiniano e il realismo metafisico tomista — emerge una diversa antropologia, e forse anche una diversa spiritualità. Agostino cerca Dio come memoria e nostalgia, Tommaso come causa e fine. L’uno scrive Confessiones, l’altro la Summa: due alfabeti dell’amore divino, ma in lingue profondamente diverse. Lei osserva nel Suo libro come Agostino sia pensatore di comunità: la civitas Dei contrapposta alla civitas terrena, la Chiesa come corpo vivente, la carità come cemento spirituale. È verissimo. Eppure, mi permetta una provocazione fraterna: se i seguaci di Agostino tendono alla comunità, i tomisti, più silenziosamente, credono nella solitudine. Non come fuga, ma come responsabilità del pensiero. Per il tomista, la ragione è personale, il cammino è individuale, e anche la salvezza — pur sempre ecclesiale — si gioca nell’atto libero e consapevole della singola coscienza. Il tomismo non è un’ideologia della folla né dell’introspezione, ma della lucidità. E in questo forse risiede oggi la sua impopolarità — ma anche la sua necessità. In un’epoca che riscopre Agostino come testimone dell’anima ferita, c’è ancora bisogno di Tommaso come architetto del pensiero ordinato. Non c’è vera opposizione ma una tensione, feconda e necessaria. Il Suo libro, caro Riccardo, me lo ha ricordato con forza e, paradossalmente, con gratitudine. Perché è proprio leggendo Agostino che si impara ad amare Tommaso: non come reazione, ma come contrappunto. E viceversa.
Lei è un chierico. Ma io, ahimè, sono un teologo. Per questo continueremo a litigare in profonda amicizia.
Con sincera stima
Suo Ottavio
