MOW sarà media partner del Transumare Fest (qui le info e prenotazioni), un festival abruzzese che avrà luogo a Roseto degli Abruzzi dal 20 al 23 agosto, tra i vari ospiti, in programmazione ci sono anche loro. I Management del dolore post-operatorio composto da Luca Romagnoli e Marco Di Nardo, autore dei testi e compositore delle musiche. Noi abbiamo intervistato Romagnoli e gli abbiamo chiesto quando hanno intenzione di tornare, se è meglio la fantasia o la realtà (anche se in parte ci hanno già risposto), cosa prevedono per Transumare, visto che “giocano in casa”, in Abruzzo (sono di Lanciano) e sul gran casino scoppiato negli ultimi tempi nel mondo dei concerti e dei presunti “finti sold-out”…. Ecco cosa ci ha raccontato.
Come mai fate solo questa data al Transumare Fest quest’estate?
Allora, eravamo fermi per una pausa, abbiamo scelto di fare questa data in casa al Transumare Festival, che è un festival bellissimo. E con quella data poi vogliamo annunciare il ritorno quest'autunno con il tour.
Ma c'è un disco nuovo?
Ci stiamo lavorando, non uscirà questo inverno, ma uscirà qualcosina.
Qualche piccolo spoiler?
Eh, no, ma non perché non te lo voglio dire. Siamo solo all'inizio. Ci stiamo lavorando, sta andando da qualche parte. Forse non abbiamo ancora capito dove, ma sta prendendo una forma.
Nel tempo il tuo stile di scrittura è cambiato radicalmente: dalla rabbia dei primi dischi a toni più dolci e introspettivi, fino alla totale esposizione del tuo album solista. Come è avvenuta questa trasformazione?
Allora, innanzitutto noi riteniamo che fare questo mestiere per rimanere sempre uguali a se stessi è una cosa un po' triste. È triste se non c'è una ricerca del proprio ruolo nel mondo, un adattarsi alle proprie visioni che cambiano, sia per ragioni anagrafiche sia perché cambia il mondo intorno. É triste quando una band si adatta su ciò che già funziona e quindi lo replica in una rievocazione storica di se stessa, no? Lo fa perché funziona, e quindi quell’opera diventa soltanto un prodotto di mercato. Allora questo mestiere smette di avere la fiamma, il fuoco che dovrebbe avere. Per quanto riguarda nello specifico la mia scrittura, sono passati tanti anni da quando ho cominciato a scrivere. La violenza, la rabbia che si ha a vent'anni, la voglia di cambiare il mondo spesso si spegne scontrandosi con la realtà. Scopriamo di essere sempre meno forti. Non ci siamo arresi, ma la prospettiva è un po' cambiata.
Si può dire che esprimi una forma di disagio, ma scegli di farlo con un linguaggio diverso, giusto?
Sì, assolutamente. Diventa sempre più difficile rispondere a queste domande perché il mondo sta diventando sempre più folle e attraverso la tecnologia e i mezzi che abbiamo a disposizione siamo sempre più a contatto con questa follia. Paradossalmente più ci siamo vicini e più diventa difficile descriverla. Come si fa a raccontare per davvero la violenza nei confronti della vita che osserviamo tutti i giorni? Ecco, io mi sento un po' disagio di fronte a queste cose perché scrivo in maniera molto viscerale, diretta. Mi metto sempre a contatto col mondo e con la realtà, non riesco ad allontanarmene perché la realtà è molto più forte e più ampia della fantasia, la fantasia mi annoia. Diventa sempre più complesso parlare di certe cose, ma al contempo non mi voglio arrendere al distacco. All’impotenza. Quel disagio però è diventato più sussurrato, ma forse così è anche più potente, proprio perché la lotta è sempre tra Davide e Golia.
Una cosa che mi ha colpito è stato vedere, sul manifesto, che non vi chiamate più semplicemente “Management” come negli ultimi anni, ma siete tornati al nome originale. Ricordo una vecchia intervista in cui spiegavate che avevate scelto di accorciare il nome da “Management del Dolore Post-Operatorio” perché vi sembrava che il pubblico arrivasse ai concerti per le ragioni sbagliate. Cos’è cambiato oggi? Perché avete deciso di tornare al nome completo?
Qualche anno fa abbiamo deciso di tagliare il nostro nome col bisturi, in maniera appunto chirurgica. Negli ultimi tempi ci siamo sentiti come amputati, abbiamo avuto la sensazione di un vuoto che abbiamo interpretato come la necessità di ritornare al "dolore post-operatorio", per continuare a raccontare la nostra storia nella sua interezza.
Possiamo definirvi “controcorrente”. Penso al 2016-17, quando esplodeva l’indie: voi eravate headliner al Mi Ami e poi avete fatto scelte che sembravano contro tendenza, come cambiare nome o registrare un disco a Napoli, invece che a Milano. Perché avevate scelto proprio Napoli?
Noi siamo della provincia abruzzese. Diciamo che ci sentiamo di appartenere al sud anche se Abruzzo poi è centro. Abbiamo scelto Napoli per registrare quel disco (Sumo) per questioni anche di “fascinazione musicale”. Non voglio parlare di lotta contro il mercato però noi siamo degli auto-sabotatori, effettivamente. Non vogliamo seguire la via del successo a tutti i costi, vogliamo cercare altro che non riguarda “il modo in cui si fanno le cose per farle funzionare”. È una cosa che non ci interessa, che va anche contro i nostri interessi, però insomma siamo fatti così. Dovrei andare dallo psicanalista per rispondere a questa domanda. È uno schierarsi sempre contro il potere, mettiamola così, sotto tutte le forme di vista: può essere il potere discografico, il potere mediatico, il potere della moda e tutto il resto appresso. Ci troviamo un po' a disagio all'interno di questi meccanismi.
Che dischi stai ascoltando in questo momento?
Non lo posso dire perché tutto quello che ascolto poi mi entra dentro e fa parte di quello che faccio. Sono i miei segreti professionali. (Ride, ndr)
Guardando indietro al percorso dei Management, e al tuo disco, c’è un momento o un album che senti particolarmente attuale ora, che fa parte di te?
Non so rispondere a questa domanda. Ogni disco, ogni canzone, ogni fase della carriera fa sempre parte della persona che scrive. Ora, se noi ti dovessimo dire a cosa ci sentiamo più vicini, sicuramente ci sentiamo più vicini a quello che stiamo scrivendo adesso, perché lo stiamo facendo in questo momento. Però non si può rinnegare nessuna fase della propria vita: noi siamo quello che siamo perché eravamo quello che eravamo. A vent'anni eravamo matti perché è giusto essere matti a vent'anni. Quindi l'importante è che ogni disco racconti una fase della vita o del nostro pensiero.
Parliamo del mondo della musica italiana oggi. Sia sul fronte discografico che su quello live, negli ultimi tempi si è parlato molto dello scandalo dei finti sold out. Qual è il tuo punto di vista su questa situazione?
Allora, innanzitutto questo fatto dei finti sold out è una storia che va avanti da tanti anni, anche nei piccoli locali, con le dovute proporzioni, non solo negli stadi. Ed è una cosa che ovviamente ha rovinato il mercato, per i motivi che sappiamo: quando la musica deve funzionare a tutti i costi, viene costruita dall’alto verso il basso e non dal basso verso l’alto. Viene pensata per le radio, per la televisione, per le grosse discografiche che buttano fuori prodotti su prodotti. Le stesse persone che fanno musica spesso la scrivono solo per farla funzionare. Quindi diventa un prodotto qualsiasi. Mentre invece il processo dovrebbe partire dal basso: dalla scrittura, dalle sale prove, dai ragazzi con uno strumento in mano – qualunque strumento sia – e con l’idea di cambiare il mondo, cambiare la musica, cambiare la traiettoria delle cose. Secondo me, questo è lo spirito che dovrebbe esserci. Poi, se uno vuole fare musica solo per avere successo, lo può fare, per carità. E sul discorso dell’intelligenza artificiale mi viene un po’ da ridere, perché è da tanti anni che c’è questa moda di prendere come “reference” le canzoni di successo internazionali, rifarle uguali e riportarle nel mercato discografico italiano. Ovviamente diventano tormentoni, perché sono pezzi che hanno già avuto un successo planetario e vengono semplicemente imitati, fatti identici. E questa cosa non è tanto diversa dall’intelligenza artificiale a cui puoi dire “Mi fai questa canzone come quella?”. “Ok grazie” Quindi, per rispondere in modo molto più diretto alla domanda che mi hai fatto – come siamo messi? – ti direi: male. In quattro lettere: male. Ecco, ho cercato di spiegarlo un po’ meglio, ma “male” resta la risposta più giusta.
