Come si può trasformare un gentiluomo leale e di nobili sentimenti in un villano mascalzone screanzato e cafone? A questa domanda c’è una risposta: è sufficiente raccontare quell’uomo come nefasto e impedire che egli si possa dimostrare direttamente qual è, in prima persona, quindi oscurandolo. Sul perché si debba fare una cosa simile le risposte sono molte e differenti a seconda dei casi, ma sempre deriveranno dalla storia di quella persona, che molto probabilmente è invisa a qualche zona di potere, perché la deliberata deformazione della rispettabilità di un individuo presso il popolo richiede determinazione e molto tempo, non si costruisce per caso la lesione della dignità civile, e non è semplice. Chi è in grado di addentrarsi seriamente in questi argomenti senza banalizzare e senza scadere in facili complottismi, riuscendo a mantenere una maniera realistica e lucida di analizzare cause ed effetti sapendo misurare le proporzioni? E di che materia si tratta? Politica o psicologia? Sociologia o giurisprudenza? Comunicazione o storia? Filosofia morale o antropologia? O diritto? Alla domanda iniziale, invece, si può rispondere anche se è complessa, ma la risposta è che si tratta un po’ di tutte queste materie messe insieme, e in ciascun campo ci saranno una prospettiva e un vocabolario differenti, ma il tema è di interesse per tutte le aree di competenza elencate. Il settore, però, che in maniera specifica si occupa della reputazione è quello chiamato “comunicazione strategica”, una disciplina che si colloca più o meno tra l’intelligence e la psicologia, quindi è spesso utilizzata per difficili operazioni diplomatiche, vere e proprie missioni, e quindi paradossalmente, nonostante sia esattamente la materia specializzata, non prevede un approccio analitico, ma pratico e soprattutto non desidera aprire dibattiti su questioni che tendenzialmente vuole gestire lontano dai riflettori e dalla curiosità. Comunque sia gli esperti di comunicazione strategica non sono interessati al perché della manipolazione mediatica, dal momento che non hanno dubbi sul fatto che la lesione della reputazione è sempre progettuale, strumento tecnico tra i molti che fanno parte del repertorio dei giochi del potere. Vedono tutto dall’interno e studiano i metodi per contrastare gli attacchi e contenere i danni ed eventualmente schivare i proiettili, non per sventare le manovre e smascherare i cospiratori, né per rivelare i retroscena, perché ne fanno una questione di tattica.
In sintesi, non si pongono la questione etica, esattamente come i militari non si pongono la questione etica sulla guerra. I filosofi invece se la pongono eccome la domanda sulla sensatezza di intraprendere dei conflitti armati, e se la pongono anche i medici e anche tutti gli altri individui che dissentono dalla violenza e dalla barbarie per innumerevoli ragioni di ordine etico-umano-spirituale-ideologico-culturale-sociale-sentimentale-affettivo, e aggiungiamoci pure di auto conservazione. Ma i conflitti internazionali sono dichiarati e, per quanto siano rappresentati in modo non autentico rispetto ai reali interessi che li muovono, sono agiti sulla collettività, condivisi ed espliciti. Invece, la guerra fatta a una sola persona è nascosta e sfrutta la collettività come esercito inconsapevole scagliato contro un solo uomo, con la tecnica della diffamazione. È complesso scegliere i termini giusti perché in questo territorio la lingua è un campo e i vocaboli sono le mine.