Quanti modi ci sono per dire “neve” nella lingua inuit? La risposta non è un numero preciso, ma variabile a seconda delle differenti correnti linguistiche, è un numero grande, gli esperti assicurano che più o meno sono un centinaio i sinonimi di “neve” al Polo nord. A parte la questione numerica, quel che mi interessa è capire se ciò dipende dal fatto che la neve, per le persone che parlano quella lingua, è una presenza talmente costante, un’immersione dello sguardo e del coro, dei sensi tutti. Se così fosse allora una lingua dovrebbe essere costruita con vocaboli che rappresentano la realtà perché plasmati su di essa, e più presente è l’elemento di questa realtà, più parole ci sono per descriverlo. Invece non è così che sono costruite le lingue, altrimenti l’italiano dovrebbe avere cento termini per dire calcio, o per dire individualismo, o per dire conformismo, visto che gli italiani sono completamente individualisti nel profondo dello spirito e si divertono solo col calcio. Oppure dovremmo avere cento modi di dire pizza, ma sarebbe totalmente inutile, ciò che conta è che per dire “pizza” ci sia almeno una parola, giusto per non sbagliare nell’ordinarne una quando sediamo al ristorante.
“Cosa le possiamo servire, signore?”.
“Mah non saprei, anzi lo so ma non so come si chiama, aspetti, è tutto giusto, il locale è giusto, l’orario è giusto, la fame è tanta, abbiamo pure atteso un bel po’ prima di poterci sedere, ma ora non riesco ad ordinare, perché non esiste la parola che corrisponde a quello che vorrei mangiare, e non immagina quanto lo desidero”.
“Lei mi sembra un po’ suonatello, se non mi dice che cosa vuole mangiare le devo chiedere gentilmente di andarsene”.
“No aspetti, la prego, cercherò di farle capire cosa vorrei ordinare”.
A questo punto mi viene in mente il modo di far comprendere cosa vogliamo mangiare: elencando tutto ciò che non vogliamo, solo cosi prima o poi porterà quella cosa.
"Senta, io non voglio un dentifricio. La mia amica dice che non vuole una macchina da scrivere".
Il ragazzotto inizia a spazientirsi perché pensa lo stiamo prendendo in giro, ma noi giuriamo che siamo seri e che quello che vogliamo mangiare non è triangolare, non si trova sugli alberi, non è dolce, non è fatto con le melanzane….
Insomma ci buttano fuori e mi sono pure preso una sberla, sapeste che pizza… mi ha tirato. Un momento....pizza? Ma l’ho trovata! Ecco, la parola era pizza. Ma che male per trovarla, che violenza quel cameriere!
Questa facezia ci vuole semplicemente portare in una situazione di assenza di una parola. Ma nella verità concreta della lingua italiana non esiste una parola, un solo termine, non un binomio bensì un vocabolo unico, univoco, unilaterale, inequivocabile e facilmente compreso, facilmente pronunciabile, dal suono dolce e onomatopeico, per dire “non-violenza”. Se voglio esprimere questo concetto sono costretto ad utilizzare la parola che esprime il suo contrario, ossia la parola “violenza”, sentirla suonare, usarla, nonostante sia il mio peggior nemico nel momento in cui il mio animo sta per manifestarsi dolcemente, bonariamente e con la sua più delicata intenzione necessita di pronunciare una parola che alluda a questo stato d’animo. Ad esempio: non è forse stomachevole pensare ad un escremento maleodorante quando stiamo per gustare una prelibata pietanza? Immaginiamo di dover chiamare quella pietanza invece di risotto, non-vomito. O, ancora, se birra, vino, acqua, bibite, venissero semplicemente chiamate tutte non-urina, sarebbero dissetanti?Spostiamoci dalla percezione del gusto e prendiamo il senso della vista come ambiente metaforico e immaginiamoci di sussurrare a due centimetri dal volto della persona amata: che bella non-nuca la tua. È un’espressione romantica? Ecco, mettiamo anche il caso che non ci si badi, soprassediamo, baciamo le labbra e ci troviamo così intimi da spogliarci e diciamo: wow, non sei un mostro, non sei repellente. Come sarebbe? Un’espressione azzeccata? Potrebbe verificarsi qualora la lingua che parliamo non avesse previsto un vocabolo da designare all’ammirazione di una figura sensuale che ci fa vibrare le corde della passione, quindi in quella circostanza non abbiamo una parola per esprimere il nostro sentimento all’altro e dobbiamo prendere il vocabolo che rappresenta il concetto opposto, invertirlo apponendo una negazione davanti. Come se il suono (il significante) di una parola non fosse rilevante noi pronunciamo non solo il suo esatto contrario, ma anche quella bella parolina multiuso e potentissima che sta sempre a portata di mano - il “non” -, che è simpatica, ma anche no, e che un nome ce l’ha, e pure un nome bello chiaro, conosciutissimo, quello sì che è unidirezionale, precisissimo e sempre acceso (paradossalmente) ed è: “negazione”. Intendo che esiste il verso di un’azione e di un’intenzione in tutto quello che è il fare, il dire, il pensare, il sentire, il creare umano, esiste una direzione. Fare l’amore è un segno +, nel senso che è procedere, edificare, produrre, ecc ecc. Abbattere un edificio, invece, è un atto che ha un segno -, poiché è distruggere, cancellare, azzerare, atterrare, eliminare, e via dicendo, tutte azioni caricate di segno negativo. Ecco perché non ci si può non stupire quando proprio nel momento in cui vogliamo abbracciare ed essere a disposizione dell’altro, quando siamo di animo amorevole, il fatto che non ci sia un vocabolo per consentirci di comunicare questo nostro spirito, di trasferirlo a parole o scriverlo, cantarlo, è una rilevante lacuna linguistica. La lingua italiana non ha previsto una parola dedicata, specifica, che alluda a quel tipo di disposizione d’animo, ma ci permette di prendere la parola che in quel momento è la più lontana, e ci fornisce un kit montabile composto da una particella negazione e la parola nemica e ci dice: ora fai tu, montali smontali, fai quel che vuoi ma io me ne lavo le mani. E noi diciamo “non-violenza”, e il risultato è che il concetto è debole, fa più fatica, e non decolla, e il mondo intanto è tragicamente crudele, sempre di più. Dunque sapendo che il discorso non finisce qua, che la voragine è profonda, perché scava nella verità delle parole, quando esse non mancano di assolvere il loro compito. Azzardo la parola. La parola mancante, la propongo, è un’idea, non vogliatemene, faccio il primo passo. Parliamone. Scriviamone. Io dico la mia, è di origine greca. La parola è “abia”. Come mi sento io? Sono venuto con le migliori intenzioni, sono pieno di abia.