Lontano dal caos del festival del cinema di Venezia appena concluso, lontano da cineasti e registi di Hollywood in posa davanti ai paparazzi, curiosi e persino influencer sul red carpet, a Santarcangelo di Romagna, da sette anni, va in scena il Nòt Film Fest. Non si tratta di un semplice festival di cinema, ma di un evento unico, dedicato in particolare alle voci del cinema indipendente a livello internazionale, che ogni anno, dal 2018, unisce opere e ospiti da tutto il mondo, creando un forte senso di comunità e diffondendo progetti che forse, altrimenti, non vedrebbero la luce. Eppure, occuparsi di cinema, soprattutto se si tratta di cinema indipendente, non è per niente facile. Ma qual è allora il “segreto” (sempre se ne esiste uno)? E come si organizza un evento come il Nòt Film Fest? Lo abbiamo chiesto ad Alizé Latini attrice romana, che ha però trascorso 15 anni a Los Angeles e che lavora nel mondo del cinema da quando aveva solo 13 anni. Proprio Alizé, insieme a Giovanni Labadessa, ogni anno organizza il Nòt Film Fest di Santarcangelo. L’edizione di quest’anno - dal 6 all'11 settembre 2024 - si distingue per una serie di dati impressionanti: 100 proiezioni, ospiti da 29 Paesi, 35 registe donne, solo per citarne alcuni. Eppure Alizé ci dice subito “Noi tentiamo di fare una programmazione che sia ampia, che insomma spacca”, ma sulle donne registe aggiunge anche che “la quota rosa è un concetto estremamente vecchio, perché Le donne bisogna metterle in condizione di lavorare”. Che dire allora del politicamente corretto che ha “invaso” (anche) il mondo del cinema? “Ha rotto i cogli*ni” ci ha detto ironica Alizé, soprattutto laddove è “fine a sé stesso e manca la comunicazione”. Abbiamo poi parlato del cinema italiano di oggi rispetto al passato e soprattutto rispetto al mondo di Hollywood, gli influencer presenti per esigenze di “marketing” e anche di quanto sia difficile, coraggioso, ma anche importante, dare spazio al cinema indipendente: “Il cinema è uno schiaffo in faccia, ma a Nòt teniamo in vita un cinema, che altrimenti non vedrebbe mai la luce”.
Alizé, da quanti anni ti occupi di cinema?
“Ho iniziato a recitare a circa 13 anni, praticamente per sbaglio. Ero in collegio a Firenze e non potevo uscire, perché mio padre non mi firmava il permesso. L'unico modo per uscire era un corso di teatro che tenevano lì, nella mia scuola. Ho fatto un provino e mi hanno preso. Abbiamo fatto una tournée con Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, in cui io ero Titania, perché ero piccolina. Forse se non mi avessero dato quella parte avrei smesso, ma ho iniziato a fare teatro e non mi sono più fermata. Sono andata a Los Angeles e ho continuato a recitare…”
Intanto una lattina di birra cade dalle mura medievali di Santarcangelo interrompendo bruscamente la nostra conversazione
“È caduta. Intervallo” ironizza Alizé. Proseguiamo.
Hai iniziato a recitare e poi? Come nasce l’idea di fare il Nòt Film Fest?
“Ho iniziato a recitare, però a me la vita dell’attore annoia. Perché non riesco a stare ferma. Quell’attesa mentre fai il provino, aspetti, oppure hai una parte per un film che ti mette “a posto” per un anno… Io ho bisogno di fare, fare, fare. Così un giorno un amico mi aveva proposto di fare da vicedirettore di un festival di cinema e ho iniziato. Poi con Giovanni e la nostra ex socia abbiamo deciso di fare un progetto che fosse più vicino a noi: io faccio cinema indipendente, non ho mai lavorato nelle grandi produzioni di Hollywood e quindi sette anni fa è nata questa idea. Nòt Film Fest nasce perché avevamo voglia di portare l’esperienza del “movie business” americano in Italia - perché è un business.”
Ovvero?
“In Italia rispetto al cinema c’è un po’ una tendenza a dire “io adoro il cinema, la settima arte…”. No, ragazzi. It’s a Movie Industry. È un’industria. Quando cominci a guardarla come tale e a legittimare il lavoro che le persone fanno, a riconoscere il fato che riescano a prendere degli archetipi emotivi, portarli su uno schermo, a narrarti qualcosa, a farti provare delle emozioni, capendo però che dietro c'è un'industria che tiene in piedi intere famiglie, allora lì, forse, si può fare cinema. E questo è l'approccio che avevamo. Il cinema indipendente si fa con le persone. Per questo noi a Nòt diciamo sempre che non troviamo il film, ma troviamo le persone. Qui al festival abbiamo un nostro “mood”, in cui stiamo tutti insieme, facciamo le cose insieme, perché anche quando si fa un film il progetto lo portiamo a casa tutti insieme, perché abbiamo fatto una cosa bella che ci ricorderemo per tutta la vita. Questo è un po' il concetto del festival.
Che cos'è per te il cinema?
“Il cinema è uno schiaffo in faccia. Perché riesce a metterti di fronte a una serie di realtà e verità che non riesci a dire neanche a te stesso. Quindi, se lo guardi bene, è un continuo schiaffo in faccia. Bello o brutto: delle volte ti provoca emozioni bellissime, altre volte ti dà uno schiaffo emotivo, come per dirti ‘Oh, questa cosa qui, l'hai dimenticata, ma…’”
Nell’edizione di quest’anno avete proiezioni di 100 pellicole da ben 29 Paesi e tantissimi ospiti. Qual è la parte più difficile dell'organizzare un evento di questa portata?
“Sicuramente la pre-organizzazione della parte filmica. Proiettare 100 opere significa trattare 100 opere come se ognuna fosse l'unica proiezione che stai facendo. Quindi bisogna trattarle con tutta l’attenzione e l’amore possibili. Per il festival servono materiali, immagini, video, perché il film non finisce nel momento in cui si dice “Cut” e fine. E non finisce nemmeno quando è finito il montaggio. Un film finisce il giorno in cui smetti di farlo vedere in una qualsiasi sala del mondo. Quindi, fino a quel momento, devi trattarlo come un lavoro attivo che sta ancora “succedendo”. Per questo, secondo me, i festival dovrebbero entrare nella filiera distributiva del cinema, perché noi teniamo in vita un cinema, che altrimenti non vedrebbe mai la luce.”
Quest'anno avete anche 35 registe donne ospiti, è un numero impressionante. Qual è il ruolo delle donne nel cinema oggi? Esiste ancora qualche forma di gender gap?
“Una volta ho sentito questa frase: “Ci sono troppo poche registe donne mediocri”. Allora, è vero che ci sono 35 registe donne, ma io non leggo chi ha fatto il film, quando me lo mandano. Non voglio sapere se il regista è un uomo o una donna, o l’età. Non me ne frega niente, perché credo che da donna, sia più importante arrivare ad una forma di equality, che non è uguaglianza, ma è l’avere le stesse opportunità, gli stessi doveri e gli stessi piaceri. Se per esempio avessi 700 film di donne, e tutti e 700 facessero schifo, non li prenderei. Per me la “quota rosa” è un concetto estremamente vecchio, perché quello che succede è che per fare in modo che alcune persone entrino a tutti i costi, si abbassa la qualità. Anzi, spero non succeda mai, ma potrebbe anche esserci un’edizione del festival con zero registe donne, come potrebbe essercene una con zero registi uomini. Il film è un film, e basta. Quest'anno è andata così perché erano 35 opere valide. E quando vedo i bandi che mi chiedono “Quante registe donne?” o “Quanti registi under 35?” mi viene da ridere, perché penso: non li valorizzate i registi, non valorizzate i giovani, mai, però obbligate noi a prendere opere di persone che voi non state valorizzando. Bisogna fare in modo che queste persone siano valorizzate, a quel punto non avremo bisogno di mettere la quota. Le donne bisogna metterle in condizione di lavorare, di avere le stesse opportunità, umanamente, di poter stare su un set e viversela tranquillamente e allora vedrai quanti film più belli faranno.”
Cosa pensi del politicamente corretto?
“Penso che ha rotto i cogli*ni. Ma sarò un pochino più chiara su questa cosa: il linguaggio è importante, perché il linguaggio educa ed è importante stare attenti a quello che si dice. Quello che però succede, secondo me, è che c'è poca comunicazione tra chi questo linguaggio “nuovo” lo spinge e chi invece non lo capisce. Bisogna considerare anche il fatto che a volte si crea una barriera tra generazioni e tra strati sociali, perché ricordiamoci sempre che chi non riesce a mettere insieme pranzo e cena, del ‘gender’, gliene frega poco, perché magari non arriva a fine mese. Quindi, secondo me, dovrebbe esserci più comunicazione, per fare in modo che non si parli più di “politicamente corretto”, ma di qualcosa che è chiaro, che si capisce. Perché questa parola “politicamente” non è una parola “pulita”, no? Noi non vediamo la politica come una cosa pulita, ma come una cosa che sottintende altro, qualcosa di macchinoso o poco chiaro… Per questo il linguaggio non dovrebbe più essere “politicamente corretto”, ma dovrebbe essere un concetto logico. Per me il politically correct non va bene nel momento in cui è fine solo a sé stesso. Nel momento in cui per esempio si fa una campagna pubblicitaria con le modelle plus size solo perché in questo momento c’è questa “ondata”, ma senza capire davvero quale sia il motivo, perché appunto, manca la comunicazione tra le parti. Quel tipo di politicamente corretto ha rotto i cogli*ni.”
Hai un film preferito o un regista preferito?
“Certo, assolutamente! Wes Anderson e “Grand Budapest Hotel”. Lo potrei guardare tutti i giorni, tutto il giorno, continuamente, perché a me tutti questi colori bellissimi che lui sceglie, il fatto che è tutto in fila, con queste linee, questa cosa che lui fa… Mi dà proprio una sensazione fisica di piacere.”
E un film invece famoso, “classico”, che però non ti piace, ti annoia o magari ritieni sopravvalutato?
“Allora, c'è tutta una serie di persone che mi massacreranno, ma a me “Star Wars”, insomma piace, però non mi ha preso il bug di “Star Wars”. Me lo guardo, li ho guardati tutti, però semplicemente non capisco la follia che c’è dietro, non la condivido.”
Non piace nemmeno a me… (Alizé ride) E c’è invece un film che secondo te è veramente bello o importante, che però non è tanto conosciuto e meriterebbe di essere valorizzato?
“Sì, “Beats” (2019) di Brian Welsh. Il protagonista è Lorn Macdonald, ed è tutto ambientato nella Scozia del 1994, nell'anno in cui Tony Blair fece una legge per bandire i rave, descrivendoli come “congregazioni di persone che ballano al ritmo di una musica” indicando un beat specifico che divenne vietato. In questo film a un certo punto viene fato un ultimo rave, cambiando il ritmo del beat usato fino ad allora, per cui le persone non possono più essere perseguitate e arrestate, in base alla nuova legge. E poi è anche una storia di amicizia tra due ragazzi che provengono da classi sociali differenti. È un film girato in bianco e nero e il regista, Brian Welsh, è incredibile. Ha diretto anche uno dei miei episodi preferiti di “Black Mirror”. L’ho conosciuto e l’abbiamo anche portato a Nòt, perché “Beats” lo avevo visto in anteprima: i primi fotogrammi sono in bianco e nero, ma a un certo punto smette di essere in bianco e nero, solo che non te ne accorgi. Lo riguardo spesso, e tuttora non si capisce come avviene, ma proprio questo mi piace. Tra le altre cose anche l’attore Lorn Macdonald ha partecipato a Nòt, come giudice. Ora è nel cast di “Bridgerton”, ed è un attore pazzesco… Comunque, per risponderti: “Beats” è un film incredibile, è assurdo non sia sotto gli occhi di tutti. Secondo me tutti dovrebbero conoscerlo, soprattutto perché è l'esempio più giusto di cinema indipendente: pochi soldi, fatto bene, recitato da Dio, scritto incredibilmente (da guardare con i sottotitoli anche in inglese perché non si capisce niente dello scozzese) però è fantastico.”
Cosa pensi del cinema italiano oggi? È sempre destinato a rimanere “un passo indietro”, avendo sempre Hollywood come punto di riferimento?
“No, non è sempre destinato. In questo momento abbiamo deciso di fare così. Non sarà sempre, così. Noi siamo stati molto davanti a Hollywood.”
Però spesso di dice che il grande momento e la “gloria” del cinema italiano siano rimasti nel passato, nel Novecento…
“Allora, comunque è sempre tutto ciclico, quindi spero che a un certo punto ci si ripigli un po’. Io vedo dei colpi di coda, almeno, a mio avviso, ma questo è sempre molto soggettivo. Parliamo di arte, quindi c'è soggettività, però sono convinta che a noi, in questo momento, manchi l'attenzione al dettaglio e il brio. Manca quella presa di responsabilità del fatto che non si sta facendo un servizio a sé stessi, ma un servizio al pubblico. Se hai fatto un film perché ne avevi voglia, ma senza capire il linguaggio, senza capire se quello che volevi raccontare arrivava effettivamente agli altri, non serve a niente. Quando sento dire: “No, ma io non l'ho fatto per il botteghino” è sbagliato, perché serve anche a quello. Anche perché nel 99% dei casi sono soldi pubblici (quindi soldi pure miei); dunque no, fallo per il botteghino. È importante avere sott’occhio quello che si mette fuori, perché se fai un buco al botteghino, significa che proprio non hai letto la società. Significa che sei talmente tanto chiuso nel tuo piccolo mondo di cineasta, tra quelle quattro mura – che normalmente sono a Roma – nel tuo piccolo mondo dove tutti sono “amici tuoi” che fanno cinema e in cui tutti vi dite “bravi, bravi”, tutti insieme… Il pubblico là fuori ha bisogno di altro, quindi ci vuole un occhio a quello che invece il mondo vuole, e non l’Italia, il mondo. Perché noi ci siamo scordati del mondo. Il mondo non si è scordato di noi, perché a scuola si studiano Fellini e De Sica. Il mondo non si è scordato, ma ci sta aspettando. Prima o poi arriveremo.”
Cosa pensi del fatto che il cinema “mainstream” renda protagonisti personaggi del mondo dello spettacolo e influencer? È vero che chiunque può recitare?
“No, non si tratta di improvvisazione. Ragazzi, ma pensiamo, tu puoi improvvisarti, per esempio, elettrauto? Francamente, voglio essere sincera: se tu una mattina ti svegli e pensi “Sai che c’è, oggi faccio l’elettrauto” Ecco. C'è una deriva incredibile dettata dal marketing. Bisogna capire che il cinema è un’industria, ma quello che si sta facendo adesso è cercare marketing gratuito. Quando vai a fare un provino da attore, molto spesso guardano quanti follower hai, perché quello fa risparmiare un sacco di soldi di marketing… Io lo capisco, perché guardare i budget è un lavoro orrendo, quindi non critico, però poi il risultato è quello che è.”
Secondo te il cinema oggi è ancora in grado di stupire, di essere irriverente e provocatorio?
“Sì. Lo fanno in tanti, continuamente. Però lo devi cercare, non ti viene dato con facilità. Anche perché vengono fatte molte più opere di quanto poi noi riusciamo ad andare a vederne al cinema, perché chi riesce ad avere distribuzione è solo una minima parte. Però ci sono tanti cineasti molto molto irriverenti.”
Il fatto di fare sempre remake e rifare un po’ le “stesse storie” non ha un po' ucciso in cinema?
“No, uccidere no. Ha rotto le palle. Però vabbè, a un certo punto smetteranno.”
Come vedi il cinema indipendente tra dieci anni?
“Forte. Anche perché sono molto più interessanti le voci che hanno fame. Quando uno dice che la necessità fa virtù, è vero. Il cinema indipendente è molto più interessante e non è facile per quelli che lo fanno, che per questo hanno una voglia di farlo venire fuori, quel brio, quella voglia di far capire il messaggio che vogliono raccontare. Che proprio per questo, quando a noi arriva, è molto figo.”