Un giorno Carlo, un amico comune, mi dice “Leo è venuto a cantare al matrimonio di mio zio un tizio assurdo. Cantava di cocaina e questi manco capivano”. Due anni dopo, eccoci qua. Nell’era in cui il mondo si piega sotto il peso di una moralità che si finge universale - e invece poi abbiamo Trump e qualche guerra - troppo, per non dire tutto, si rivela un velo ipocrita su desideri repressi e contraddizioni sociali. Ecco il clima per l’ascesa di Tony Pitony che emerge non come un semplice fenomeno di intrattenimento, ma come un atto filosofico di ribellione, un riso che squarcia il tessuto della finzione collettiva, ricordandoci che la vera profondità dell’esistenza umana risiede proprio nella capacità di deridere ciò che finge di essere sacro. In questo Tony Pitony, con i suoi testi taglienti e paradossali, diventa il moderno erede di quel genio comico che Henri Bergson descriveva ne “Le Rire” come meccanismo per correggere la meccanizzazione della vita, dove il riso non è solo svago ma uno strumento sociale per riportare l’uomo alla sua vitalità fluida, opponendosi alla rigidità delle convenzioni che ci trasformano in automi di ipocrisia. Immaginate un mondo dove ogni gesto è misurato, ogni parola filtrata attraverso il prisma del politicamente corretto, un’arena in cui il bene comune è declinato in slogan vuoti che celano avidità e paure ancestrali, e qui arriva Tony Pitony, non con sermoni pomposi ma con battute che colpiscono come pugni nello stomaco, rivelando l’assurdità di una società che predica uguaglianza mentre accumula disuguaglianze, e la sua ascesa non è casuale, è il sintomo di un’umanità che, stanca di essere bistrattata dal moralismo imperante, cerca rifugio nel sarcasmo, nel riso che Bergson definiva essenzialmente sociale. Un eco collettivo che corregge le devianze, impedendo che l’ipocrisia si cristallizzi in mostri reali che vagano per le strade, perché se non ridiamo di noi stessi, quei mostri – repressi, distorti – esploderanno in violenza pura, e Tony, con il suo umorismo nero e implacabile, ci salva da questo destino, offrendoci una diversificazione metaforica del bene, non più astratto e opprimente ma incarnato nel paradosso, nel grottesco che unisce anziché dividere.

Pensate a Socrate, che nei mercati di Atene usava l’ironia per smascherare i sofisti, e Tony Pitony è il suo avatar contemporaneo (siamo a Siracusa, non a caso) un filosofo del palcoscenico che, attraverso testi come quelli in cui deride le ipocrisie dei potenti, ci ricorda che la filosofia non è solo contemplazione astratta ma intervento nel reale, e la sua ascesa, dal cabaret underground alle arene affollate, riflette un bisogno collettivo di opposizione, perché in un’epoca in cui i social media amplificano la virtù performativa, il suo riso autentico diventa arma contro la finzione. Citando Nietzsche che in “Così parlò Zarathustra” esortava a danzare sul vulcano, Tony danza proprio lì, sul bordo dell’abisso ipocrita, con battute che trasformano il veleno sociale in antidoto, e non è un caso che sempre più gente si volti verso trasmissioni come “La Zanzara” di Cruciani, quel calderone di provocazioni radiofoniche dove il politically incorrect regna sovrano, perché in un mondo moralista che ci impone di pensare allo stesso modo, di sorridere allo stesso modo, di soffrire allo stesso modo, l’ascolto di voci come quelle di Cruciani e soci rappresenta un grido per la diversità. Ma la diversità non è quella superficiale delle etichette ma quella profonda, metaforica, che ridefinisce il bene comune non come imposizione ma come pluralità di prospettive, e Tony Pitony incarna questo, con i suoi monologhi che prendono in giro le sacrosantità laiche e religiose, mostrando come il riso bergsoniano, quel “contraccolpo dell’elasticità” che riporta il meccanismo inceppato alla vita, sia essenziale per prevenire i mostri, perché la repressione del riso genera mostri interiori che, non sfogati, devastano le città, pensate ai regimi totalitari dove l’umorismo era bandito e nascevano orrori, mentre in democrazie ipocrite come la nostra, fingiamo libertà ma censuriamo il dissenso comico, e qui Tony sale, acclamato da un pubblico che ne ha abbastanza di essere trattato come bambino. I suoi testi, intrisi di sarcasmo filosofico, oppongono alla società ipocrita un specchio deformante che rivela la verità nuda, cruda, ridicola. Approfondiamo: Bergson, nel suo saggio sul riso, insiste che la comicità nasce dalla ripetizione meccanica in un mondo vitale, e Tony Pitony eccelle proprio in questo, nei suoi sketch dove ripete all’infinito i tic della borghesia moralista, quel “io sono buono perché riciclo ma sfrutto i lavoratori”, e il riso che provoca non è gratuito, è catartico, un’opposizione attiva che, come diceva Aristotele nella “Poetica”, purga le passioni attraverso la commedia, e in un’Italia dove il moralismo cattolico si mescola a quello progressista in un minestrone tossico, Tony diventa il demistificatore, citando esempi analoghi come Charlie Chaplin nel “Il Grande Dittatore” che con un semplice gesto del baffo ridicolizzava Hitler, o George Carlin che smascherava l’ipocrisia americana con rutti filosofici, e l’ascesa di Tony è simile, da outsider a voce del popolo, perché la gente, esausta di prediche tv e post su Instagram che fingono empatia mentre ignorano il vicino di casa, si riversa verso “La Zanzara".

Cruciani conduce con la ferocia di un gladiatore satirico, intervistando mostri e santi con lo stesso ghigno, questo ascolto crescente che ne ha piene le palle del buonismo del “anche tu sei colpevole” – dati alla mano, audience in boom negli ultimi anni – significa che in un mondo dove il bene comune è monopolizzato da élite che decidono cosa è “giusto” ridere, abbiamo fame di diversificazioni metaforiche, di metafore che espandono il concetto di bene oltre il didascalico, verso il ludico, il sarcastico, perché solo scherzando sulle cose – sul sesso, sulla morte, sul potere – impediamo che diventino tabù che generano mostri, pensate ai serial killer repressi in società puritane, o alle rivolte nate da umorismi negati, e Tony Pitony che ci insegna che il riso è la vera etica, un’etica bergsoniana della durata, dove il tempo vitale scorre libero dalle catene morali rigide. E sarcasticamente, ma quanto è ironico che l’ascesa di figure come Tony riveli la paura che sia finita l’epoca del buoncostume: paura che il riso dissolva le certezze, che mostri come il moralismo sia solo un costume da supereroe lacero, e in questo, citando Camus nell’“Uomo ribelle”, la ribellione attraverso l’assurdo comico è l’unica forma di libertà autentica, perché opporsi alla società ipocrita non con rabbia ma con ironia è il gesto più profondo, e l’ascolto di Cruciani, con le sue litigate surreali, è metafora di questo: diversificare il bene comune significa permettere che il brutto, il volgare, il provocatorio abbiano voce, altrimenti il bene diventa mostro totalitario, e Tony, salendo le classifiche, ci ricorda che senza comicità, le città brulicherebbero di demoni inespressi, mentre con un buon testo satirico, quei demoni ridono di se stessi e svaniscono.

Oggi purtroppo o per fortuna sono i rapper, ora anche i musicisti come Tony, a fare vera filosofia, citando Schopenhauer che vedeva nel riso un momento di liberazione dal velo di Maya. Qui il velo è l’ipocrisia sociale, squarciato da battute che, come esempi analoghi in Swift con i suoi “Viaggi di Gulliver” dove ridicolizza l’umanità riducendola a formiche o, Tony ridicolizza i moralisti riducendoli a pagliacci, impedendo che la loro rigidità generi mostri, perché in un mondo dove il moralismo reprime l’istinto, il riso lo sublima, e l’ascolto crescente di programmi provocatori è sintomo di questa urgenza: diversificare metaforicamente il bene significa inventare linguaggi nuovi per il comune, linguaggi comici che uniscono nel ridicolo condiviso, e senza di essi, i mostri – metafora per le pulsioni represse – infestano le periferie, le metropolitane, le piazze, mentre Tony, con il suo sarcasmo profondo, li esorcizza, asceso non per caso ma per necessità ontologica. Profondiamo ulteriormente: l’ascesa di Tony Pitony può essere letta attraverso la lente heideggeriana dell’Essere-nel-mondo, dove il riso comico è un modo di svelare l’autenticità contro l’ipocrisia del “si dice”, e i suoi testi, intrisi di esempi quotidiani come il finto ecologismo dei ricchi che volano in jet privato, oppongono alla società un Dasein ridanciano, e Bergson converge qui, enfatizzando come la comicità liberi dalla distrazione meccanica, e in Italia, dove il moralismo è endemico – dalla Chiesa al woke importato – Tony diventa il liberatore, e l’interesse per “La Zanzara”, con i suoi monologhi crudi su sesso politica e follie umane, riflette questo: in un mondo moralista, il bisogno di diversificazioni metaforiche è vitale, perché il bene comune non è un monolite ma un poliedro di prospettive, e scherzare sulle cose – sul dolore, sull’amore, sul potere – è il solo modo per prevenire i mostri, quei fantasmi freudiani dell’Es che, non canalizzati nel super-io comico, eruttano in tragedie, e sarcasticamente, è patetico come i censori, fingendo di proteggere la società, la rendano più fragile, mentre Tony sale, citando analoghi come Mark Twain che con “Le avventure di Huckleberry Finn” derideva il razzismo ipocrita, mostrando che la comicità è etica pura, un’etica del flusso bergsoniano dove la vita crea senza catene. E così, l’ascesa continua, un fiume filosofico che scorre attraverso i testi di Tony, opporsi all’ipocrisia non è odio ma amore per la verità nuda, e l’ascolto di Cruciani è eco di questo amore, diversificando il bene in metafore vive, impedendo mostri con il potere del riso. Espandendo, pensiamo alla fenomenologia del riso in Tony: Husserl parlava di epoché, sospensione del giudizio, e il comico fa proprio questo, sospende il moralismo per rivelare l’essenza ridicola, e i testi di Tony, con il loro sarcasmo che trafigge le convenzioni, sono epoché sociale, opponendosi alla ipocrisia che Bergson vedeva come automatismo, e la sua ascesa, dai teatri ai viral, è fenomenologica necessità, perché la gente, immersa nel mondo moralista, cerca bracketing comico, e “La Zanzara” lo offre con le sue provocazioni che diversificano il bene comune in dialoghi metaforici caotici ma veri, e senza questo, i mostri – le ombre heideggeriane dell’angoscia – vagano liberi, mentre scherzare li dissolve, citando esempi come i Monty Python che con “La vita di Brian” ridicolizzavano il messianismo, e Tony fa lo stesso con l’italianità ipocrita, sarcastico nel profondo, rivelando che la comicità è salvezza. E il flusso prosegue: in un’era di cancel culture, l’ascesa di Tony è resistenza foucaultiana al potere del discorso morale, i suoi testi decostruiscono il sapere-ipocrisia, e Bergson approverebbe, vedendo nel riso una resistenza alla meccanica del potere, e l’ascolto crescente di Cruciani, con le sue litigate che espongono il ridicolo umano, significa che diversificare metaforicamente il bene è atto di potere contro il totalitarismo soft, perché solo ridendo impediamo mostri, quei corpi disciplinati che ribellano violentemente, e Tony, con sarcasmo filosofico, ci guida, analoghi a Diogene che con la lanterna cercava l’uomo onesto ma trovava solo ipocriti da deridere, e qui Tony accende il riso come lanterna. Sarcasticamente, quanto è ipocrita chi critica Tony mentre ride in privato, e la sua ascesa è trionfo di questa verità, profondo nel flusso della vita bergsoniana. Continuando senza sosta, consideriamo l’estetica del comico in Tony Pitony: Kant nella “Critica del giudizio” vedeva il sublime nel terrore temperato, ma il comico è il bello ridicolo, e Tony lo incarna oppugnando la società con testi che estetizzano l’ipocrisia in spettacolo, e la sua ascesa riflette un’estetica collettiva che Bergson arricchirebbe con la vitalità del gesto comico: e in un mondo moralista, “La Zanzara” è estetica pura.
