Tra il momento di scrivere queste righe e il momento di premere “invio”, Paolo Cognetti potrebbe aver rilasciato altre diciotto interviste ad altrettanti giornali italiani, come potrebbe essere impegnato a raccontare il dramma del suo recente Tso – trattamento sanitario obbligatorio – ad altri cinque microfoni di altrettante stazioni radio-televisive, come potrebbe essere già impegnato in un reboot del Gioco dei Nove dove lui occupa il riquadro centrale e paragona la sanità pubblica italiana a “un regime che non esiterebbe a definire carcerario”, oppure potrebbe stare il pomeriggio in diretta su Instagram a mangiarsi il goulash per poi dire che alla mensa dell’ospedale Fatebenefratelli il goulash lo facevano meglio. Sono tutti scenari altrettanto probabili, se il calcio d’avvio è stato “Paolo Cognetti racconta un Tso a Repubblica meno di 48 ore dopo che l’ospedale l’ha dimesso”. Questa è una storia, a voler essere indulgenti, piena di conti che non tornano, e assolutamente prematura per i tempi e le maniere con cui sta venendo raccontata dal presunto protagonista. Il pezzo che state per leggere è molto lungo. È bene chiarire un punto di partenza: Paolo Cognetti non è “cattivo” in nessun senso del termine. Probabilmente è anche una brava persona. In questo momento, però, se guardo come sta affrontando l’uscita dal suo secondo Tso nell’arco di dodici mesi, io vedo un uomo ancora perso in un malessere lontano dall’essere trattato a dovere, oppure un uomo in qualche misura manovrato da chi non ha a cuore la sua salute. Nel migliore dei casi, Cognetti si è buttato in bocca ai giornali da solo; nel caso peggiore, questa è un’operazione commerciale spaventosa, con una regia mirata a lanciare un prodotto – l’inesorabile libro sul manicomio di Paolo Cognetti – non certo a “parlare di salute mentale” per aiutare “le persone meno privilegiate”. Del resto, se il caso Leonardo Caffo ci insegna qualcosa è che il mondo della cultura italiana contemporanea è pieno sia di gonzi ingenui sia di soggetti random elevati a santoni/pensatori pur di non mettere in imbarazzo chi li ha invitati alla festa di Natale. Gli unici passaggi di questa storia a cui io credo per la mia esperienza professionale sono due: primo, Paolo Cognetti è alcolizzato (lo sta dicendo pure lui); secondo, Paolo Cognetti non ha intorno nessuno capace di vivere nel mondo reale. Tanto nella loro testa è sempre tutto storytelling, sono tutte storielle, metafore, trucchetti da venditori. La mia opinione è che Paolo Cognetti sta raccontando un miscuglio tra fatti e suggestioni, e nessun giornalista gli sta ponendo vere domande, vuoi per opportunismo (“intervistiamo un famoso con i problemi”), vuoi per desiderio di credere a una storia hardcore che avrebbe per protagonista un uomo famoso, vuoi per l’imbarazzo del trovarsi di fronte a un quarantenne alcolizzato con una diagnosi di disturbo bipolare, imbarazzo unito all’ignoranza di come funzionano la medicina, la scienza e gli ospedali psichiatrici in Italia e in Europa. Si parte.
Alcuni fatti (“Aspetta, ma da quanto tempo l’hanno dimesso Paolo Cognetti? Aaah”). Il giorno 4 dicembre lo scrittore Paolo Cognetti sarebbe stato ricoverato per il suo secondo Tso (trattamento sanitario obbligatorio) nell’arco di dodici mesi all’ospedale Fatebenefratelli di Milano; sarebbe stato dimesso dall’ospedale Fatebenefratelli il giorno 17 dicembre, un martedì. Dopo di che Cognetti si è fiondato a rilasciare interviste sugli orrori del trattamento sanitario obbligatorio. La prima chiacchierata deve averla fatta il giorno stesso della dimissione, al massimo il giorno dopo, se il 19 dicembre è uscito il primo articolo dove Cognetti si stava facendo intervistare da Giampaolo Visetti per La Repubblica, pubblicato con lo spumeggiante titolo “Vivo ma morto. I miei giorni in psichiatria”. E questa, bambini, è una classica intervista esclusiva. Viene concordata per dare una notizia in anteprima al giornale che potrebbe offrire lo spazio migliore al personaggio di turno. (n.b. io per il libro uscito questo autunno ho fatto un mensile, un settimanale e un quotidiano in base alla stessa logica). Normale amministrazione. A volte ci pensa l’ufficio stampa, a volte ci pensa il protagonista per buoni rapporti suoi. Certo però nessuno rilascia “un’intervista in esclusiva” meno di 48 ore dopo essere stato dimesso dal reparto di Psichiatria di un grande ospedale italiano che nell’intervista viene dipinto come l’inferno sulla Terra. E perché? Perché poi una persona sana di mente va a leggere l’articolo e comincia a pensare, accidenti, che brutta esperienza – no, aspetta, scusa, ma questo qua da quanto tempo è uscito dall’ospedale? È uscito da due giorni? Forse meno di due giorni? E sta già lì a fare le interviste? Aaah. Il prevedibile “aaah” detto dalla persona sana di mente che legge Repubblica non è stato un fattore preso in considerazione in nessuna fase di questo lancio, dove qualcuno si potrebbe essere adoperato dietro le quinte per far intervistare Paolo Cognetti al volo, appena uscito dal Fatebenefratelli, portandosi avanti sulla notizia hot del suo secondo ricovero in Psichiatria in un anno. Oppure Paolo Cognetti è ancora messo malissimo e sta parlando con chiunque gli suoni al citofono, a partire da Repubblica. Comunque. Questo ricovero per Paolo Cognetti sarebbe stato il secondo ricovero in Psichiatria nella città di Milano in meno di un anno. Ci sarebbe stato un primo ricovero a Gennaio 2024, se non ho frainteso sempre allo stesso ospedale Fatebenefratelli, sempre nel reparto di Psichiatria, che sarebbe anche questo durato un paio di settimane. Il condizionale (“sarebbe”) è d’obbligo: ho dovuto rileggere numerose volte tutte le interviste rilasciate da Cognetti in due-tre giorni di fuoco per capire chi avrebbe fatto cosa quando. Non è un buon segno.
La parte dove Cognetti parla degli ospedali italiani nell’anno 2024. Nel groviglio di interviste che Paolo Cognetti sta rilasciando, Cognetti mescola in maniera dissennata vari passaggi di quello che sarebbe stato il suo ultimo anno: sostiene di essere stato “legato mani e piedi” in ospedale, “stordito con i farmaci”, parla di “catene” e racconta due ricoveri in due reparti italiani di Psichiatria come se fossero il manicomio di Ragazze interrotte, infarcendo le sue dichiarazioni di allusioni a dettagli shock che non possono o non vogliono essere verificati, senza nessun contraddittorio, perché “povero ragazzo”. (“Povero ragazzo” e “interviste prone senza nessuna verifica” saranno un refrain di questo pezzo.) Ma sono tutte interviste prone in cui – se ci fate caso – Cognetti non si sta soffermando davvero su niente. Non scende in nessun dettaglio dei suoi due ricoveri – quindi un mese in totale passato negli ospedali italiani – a parte questi abbozzi di scenette da cinema. (“Essere stato legato mani e piedi”, “la sveglia alle sei di mattina”.) Un po’ strano che un affermato scrittore in attività da parecchi anni non abbia visto o ascoltato quasi nulla del mondo in cui ha vissuto per quattro settimane dell’ultimo anno. La mia ipotesi: i due ricoveri ci sono stati, Cognetti avrà comprensibilmente dormito la metà del tempo, ora non ha niente di spendibile da raccontare (oppure ce l’ha, ma non riesce a dire la verità perché è troppo presto per metterlo davanti a un microfono) ma deve per forza “fare le interviste” sulla sua “storia personale”. Diciamola più dritta: non mi risulta che all’ospedale Fatebenefratelli di Milano vengano usate “le catene” per farci niente. Riguardo al legare mani e piedi un paziente ricoverato in reparto, non hanno legato me quando mi hanno fatto una lavanda gastrica d’urgenza per un’intossicazione alcolica nello stesso ospedale una notte di oltre vent’anni fa, ritengo improbabile che al Fatebenefratelli si mettano a legare mani e piedi un paziente adulto del reparto di Psichiatria adesso. Passando ai “farmaci” pesanti o somministrati in dosi da cavallo, quelli con cui “ti stordiscono”, i farmaci possono sì essere dati – ragione per cui prima di arrivare a una diagnosi medica è necessario un tempo di osservazione, con annotazioni precise e una batteria di esami del sangue – ma tipicamente dietro alla pasticca sbagliata c’è un professionista frettoloso del settore privato, oppure una struttura di accoglienza altrettanto privata. Non una équipe ospedaliera dove medici, educatori e infermieri lavorano in gruppo e hanno accesso alle stesse informazioni sul conto di un paziente trattenuto per un ricovero tutto sommato breve (due settimane primo giro, due settimane secondo giro). La diciamo ancora più dritta? Un adulto in un reparto di ospedale pubblico italiano a cui viene dato un sedativo è un adulto che stava manifestando un livello di aggressività fisica tale che un professionista ha detto “bisogna sedarlo”. Punto. Il sedativo, se viene dato, viene dato per evitare che il paziente provochi danni peggiori a se stesso o al personale. “I farmaci” non li distribuiscono a manciate in un ospedale pubblico dove il lavoro con i pazienti viene svolto da una squadra di medici, infermieri e specialisti. Come “il tubo” o “il sondino” – l’alimentazione forzata – scattano quando una persona rifiuta il cibo per parecchi giorni consecutivi, non quando rifiuta di mangiare un pasto. E queste cose le sanno tutti. Tutti a parte i giornalisti che hanno intervistato Paolo Cognetti subito dopo il ricovero. Negli ospedali psichiatrici non solo italiani, ma in tutto l’Occidente, nell’anno 2024, le persone non vengono legate o immobilizzate a casaccio, con il paziente che “si ritrova prigioniero” come fosse in un manicomio americano del 1950: ci sono state lunghe battaglie legali e grandi campagne di sensibilizzazione per far chiudere i manicomi (è successo in Italia) e per far smettere di usare determinati metodi nella sanità pubblica. Questi metodi non vengono imposti che ha i documenti in ordine. Un quarantenne molto benestante, per giunta bianco e socialmente iper-protetto, a Milano, potrebbe ricevere un trattamento simile soltanto, al limite, se venisse ricoverato in una struttura privata specializzata in “nuovi sistemi” o in “terapie sperimentali”. La merda, cari bambini, esiste nel settore privato. Ma questa è un’altra storia. Cos’altro ha detto Cognetti del suo ricovero in Psichiatria? Scorriamolo, questo barile di interviste: in un reparto psichiatrico di un ospedale pubblico a Milano “ti svegliano alle 6 di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieroni di tranquillanti.” In un reparto psichiatrico di un ospedale pubblico a Milano ci sono le stanze dove si fuma. In un reparto psichiatrico di un ospedale pubblico a Milano può capitare di “ritrovarsi in catene dopo il Tso”. No, stop. Catene? Qualcuno ha detto “catene”? Chi avrebbe incatenato un paziente in un ospedale pubblico italiano? La parte dove Paolo Cognetti parla di “catene” (ma adesso il video integrale non riesco a trovarlo). Il servizio di cui vi parlo adesso sta girando molto, ma il riferimento alle “catene” resta confinato al titolo del servizio: Paolo Cognetti: "Ritrovarmi in catene dopo il Tso un'esperienza che non dimenticherò mai". È una video-intervista ospitata sulla home page di Repubblica online. Se guardate il video, come sto facendo io adesso (22 dicembre), il video sul sito di Repubblica si interrompe di colpo a 1’ 26’’, prima che Cognetti parli di queste indimenticabili “catene” dell’ospedale. Una versione più lunga della stessa video-intervista - rilasciata in origine al Tg Rai Regionale della Lombardia – si trova ancora sul sito di RaiNews (eccola), ma anche ascoltando quella versione la parte delle catene è scomparsa. Segno, per me, che se ci sono state dichiarazioni sulle catene a favore di camera ora sono state cancellate – meglio così, non mi risulta ci siano ospedali italiani con “le catene” in dotazione, per mettere i pazienti “in catene” – ma dentro di me ci sono due lupi: uno pensa a un semplice errore di comunicazione, uno si immagina che un dirigente dell’ospedale Fatebenefratelli abbia alzato il telefono, chiamato i giornali e detto “non ci sono mai state le catene al Fatebenefratelli, tagliatelo ‘sto filmato”. L’unica persona “in catene” che abbiamo tutti visto nell’anno 2024 è stata Ilaria Salis per come è apparsa sui giornali e in Tv in un’aula di tribunale durante le udienze del processo in Ungheria. Paolo Cognetti dice di essere stato legato, Paolo Cognetti parla di catene ma il filmato si interrompe e restano vari titoli su vari portali che hanno ospitato la notizia, io mi trovo francamente davanti alla possibilità che Paolo Cognetti abbia visto Ilaria Salis in televisione durante un suo picco maniacale e che abbia pensato di essere in catene pure lui, e adesso lui l’ha detta, così. E se davvero siamo da queste parti, siamo davanti a un uomo ancora molto inguaiato che va sovrapponendo la realtà di un reparto di Psichiatria e le sue fantasticherie. È come se io adesso smettessi di scrivere questo articolo per mettermi a guardare Hostel 2 e tornassi a scrivere raccontando al direttore che il pezzo è in ritardo perché ero finita in un castello in Slovacchia dove Ruggero Deodato pagava cinquecento euro per torturare le ragazze. Questa cosa non è successa. Questa è la trama di Hostel 2.
La parte dove Paolo Cognetti paragona un reparto d’ospedale italiano al carcere (dove non è mai stato). Un reparto di Psichiatria del 2024, secondo Paolo Cognetti, sarebbe “un regime che non esiterei a definire carcerario”. L’ha detto lui. In una delle interviste più strombazzate, quella rilasciata poche ore dopo essere stato dimesso, Cognetti dice anche, “non sono mai stato in carcere, ma non credo sia tanto diverso. Tanti altri vengono trattati così, ma se lo raccontano non c’è nessuno che li ascolta”. Ecco, qui Cognetti sta subito raccontando se stesso come un Cristo schiodato che grazie alla sua esperienza vissuta illuminerà a beneficio di tutti noi questo orrore di cui nessuno parla (e se qualcuno parla nessuno lo ascolta). Peccato che sia di carceri sia di ospedali ne parlino alcune migliaia tra giornalisti, divulgatori e attivisti in tutta Italia. Peccato che “la situazione delle carceri” e “la situazione degli ospedali” vengano raccontate con precisione, in effetti, e che quasi ogni giorno “carceri e ospedali” trovino spazio sulle principali reti Tv, sui quotidiani nazionali e su portali di notizie da milioni di click a pagina (ci scrisse un saggio perfino la mia povera madre, basato su due anni del suo lavoro volontario all’interno del carcere di San Vittore). L’obiettivo di questa narrazione da parte di Cognetti - o di chi sta decidendo cosa fargli dire in questo periodo: ci torneremo - è portarsi avanti con la creazione di un falso bisogno (“non ne parla nessuno! non c’è nessuno che ascolta!”) là dove l’offerta reale è molto abbondante e i media italiani mostrano vivo interesse a coprire quasi ogni giorno “le storie di chi ci è passato”. Esistono più libri sulla salute mentale che stelle nel cielo. E comunque, lo sapete chi ci è stato in carcere? Lo sapete chi ci è entrato in un carcere italiano? La indovinate con due: letteralmente chiunque abbia mai pubblicato un libro in Italia negli ultimi vent’anni. Siamo tutti stati invitati in un carcere o un istituto per minori. Ci sono stata anch’io in carcere, più volte, ospite di tre diverse strutture in veste di autrice di libri: ho visto situazioni molto diverse a seconda della città e della struttura che mi apriva le porte, da “carcere di media sicurezza che stando a quanto mi dicevano le donne detenute assomigliava più a una comunità terapeutica” a “comunità terapeutica per minori dove nessuna ne voleva mezza” passando per “San Vittore”. (Whomp whomp.) Ma sia chiaro, in questa circostanza io sono una dei tanti. “Andare in carcere” o “visitare un istituto” è stata un’esperienza comune agli attori, scrittori o artisti in attività durante gli anni Dieci: prima del Covid, volontari e associazioni cercavano sempre qualche professionista disponibile per un laboratorio o un ciclo di incontri a porte chiuse. Se Paolo Cognetti “non è mai stato in carcere” è perché non ha accettato nessun invito da parte di un carcere. Oppure perché alcuni inviti magari glieli hanno fatti, però lui non li ha mai ricevuti (diciamo che la busta con l’invito è stata intercettata da chi filtrava le richieste al suo posto). Oppure lui non si è reso disponibile a concedere qualche ora del suo tempo a un luogo dove non ci sono i banchetti dei libri in vendita per il firma-copie. (Segnatevela, questa, ci torniamo alla fine. E a un certo punto, scusate, peggio per Cognetti se in carcere non c’è mai stato: io da San Vittore sono uscita pensando “qui dentro non duravi trenta secondi, ringrazia che non ti eri mai messa a spacciare, va’ a casa, fumati un pacchetto di sigarette e fatti la doccia prima di dire ah”, le successive visite ad altri istituti hanno confermato l’impressione iniziale). La parte in cui spieghiamo cosa vuol dire “bipolare”. Il disturbo bipolare (un tempo noto come disturbo maniaco-depressivo) è una grave malattia mentale ereditaria, caratterizzata da fasi di estrema agitazione alternate a fasi di estrema depressione. Per arrivare a una diagnosi serve tempo e pazienza - infatti serve un periodo di osservazione da parte di uno o più medici, meglio se in équipe - ma è impossibile scambiare una persona sensibile o troppo emotiva per un bipolare in senso clinico: il disturbo bipolare è una tara genetica che il malato eredita da chi lo ha messo al mondo. Nessuno “diventa” bipolare: o ce l’hai nel sangue, o non ce l’hai, quindi non lo puoi contrarre. Ma è un disturbo da cui non si guarisce mai, perché si tratta di uno scompenso organico che può essere trattato con i farmaci (il litio, ma non solo) e con il monitoraggio dello stile di vita, non può essere “curato”. Stiamo parlando di una malattia mentale cronica, dove il malato tende ad auto-distruggersi perché quando entra in fase maniacale, ad esempio, decide che i farmaci non gli servono e smette di prenderli. Questo potrebbe essere accaduto anche a Paolo Cognetti innescando il suo secondo ricovero dell’anno 2024: Cognetti dice che lui avrebbe soltanto saltato un colloquio previsto, trovandosi per questo “la polizia sotto casa”. Anche su questa sequenza ho i miei dubbi – di solito, a chi salta un colloquio con il servizio sanitario, gli fanno una telefonata e gli dicono di venire in reparto: non gli mandano subito una volante della polizia sotto casa. Che avevo detto sulla storia piena di conti che non tornano? O Cognetti si è inventato la polizia sotto casa, oppure la polizia qualcuno l’ha chiamata per altri motivi che nessuno di noi può conoscere, non per “un colloquio saltato”. Intanto la gente su Internet sta romanticizzando tutta la situazione – è partito in trenta secondi un coro di “guarisci presto!” e “pure io ho vinto la mia battaglia contro la depressione!” – forse perché sembra brutto non fare gli auguri al malato famoso sotto Natale, forse perché la cattiva informazione riguardo questa patologia in particolare offusca un pezzetto di realtà familiare a chi conosce una persona affetta da disturbo bipolare: se un bipolare rifiuta di curarsi, può sempre arrivare una nuova fase maniacale in cui il bipolare decide che – hop! – lui o lei sta bene così e sono “i dottori” e “la società” ad ostacolarli. Pensate a Kanye, ma almeno Kanye ha fatto Runaway. Cosa succede a un bipolare che non prende le medicine? Grazie della domanda: un bipolare che non prende le medicine a volte si suicida, a volte si ammazza con l’alcol o con la droga, a volte finisce morto perché decide di dormire in strada tutto l’inverno, a volte si infila in una situazione per cui comincia a sbroccare e qualcun altro tira fuori un coltello. A volte viene solo mollato dagli amici esausti, allora vaga cercando un nuovo gruppetto di amici, finché si trova il nuovo gruppetto e ricomincia la giostra da capo, magari con un nuovo set di grandi ossessioni e grandi ideali. I bipolari che non prendono le medicine non sono “cattivi”, però intanto vanno in giro a dire e fare cose senza senso. (Elemento emerso da questo girone infernale di interviste post-dimissione, Cognetti dice che il suo amato paesino di montagna gli avrebbe voltato le spalle dopo l’uscita del suo ultimo libro: il primo che si azzarda a chiedere “scusa ma forse queste sono manie di persecuzione?” rischia di essere lapidato come “un invidioso”). Ad ogni modo, vivere con un bipolare che rifiuta di curarsi è un incubo. La persona sana di mente “ne esce” tagliando i ponti. Con il bipolare che non prende le medicine, a parte i parenti intimi, chiunque presto o tardi rompe i rapporti, perché presto o tardi la persona sana di mente si stanca di avere il tizio/la tizia che annuncia il suicidio, telefonate o visite a tutte le ore del giorno e della notte, strilla, pianti, urla, deliri religiosi, e via. Queste sceneggiate non sono “frutto di una società moderna che rifiuta le persone fragili”: queste sceneggiate succedono quando la scienza e la medicina vengono ignorate da chi decide di ignorarle perché gli torna comodo ignorarle, magari in nome di una visione borghese degli “artisti eccessivi”. Anni fa ho tagliato i rapporti con una donna bipolare che era capace di tenermi al telefono per cinque-sei ore consecutive: ricordo di aver messo giù il telefono per andare in bagno e quando sono tornata in linea lei stava ancora monologando come se nulla fosse. Il mio punto di non ritorno ce l’ho avuto quando questa donna mi ha detto tutta allegra che pensava di fare un figlio perché “anche se aveva una crisi depressiva post-parto il bambino non se ne accorgeva, l’importante era dargli il latte”. E proseguendo con, “il bambino cosa vuoi che capisca, lui ciuccia.” Testuali parole. Questo è il disturbo bipolare, ragazzi. Questa fuga dalla realtà. Sono malato di mente, ma se ho voglia faccio un figlio e chi se ne fotte se poi sbarello mentre in braccio ho un bambino. Quindi Paolo Cognetti i sintomi del disturbo bipolare ce li ha? Questo purtroppo mi pare di sì. Ci arrivo. Durante le sue fasi maniacali, per come le ha raccontate nelle interviste, Paolo Cognetti sostiene di aver mandato sue fotografie nudo a diversi amici per provocargli una reazione (classica cosa da bipolare, erotomania e zero senso dei confini); dice di aver regalato molto denaro ad altre persone (altra classica cosa da bipolare - in fase maniacale i bipolari spendono fiumi di soldi, comprano oggetti, mobili e vestiti che non gli servono): dice anche di non aver dormito per tre notti consecutive e di non aver trovato nulla di strano in questo (insonnia e agitazione frenetica unita al rifiuto di ammettere cosa sta succedendo, classico sintomo maniacale). Purtroppo un sintomo maniacale è anche tutto quello che Cognetti ha fatto in questi giorni: rilasciare interviste sconnesse, saltare da un argomento all’altro. Lui ne sta uscendo come un uomo poco lucido, non un malato che “vuole condividere” perché ha imparato a badare a se stesso, e dirgli “sei tutti noi, guarisci presto” (“guarisci presto” da una malattia mentale da cui non si guarisce mai, tra l’altro, ottima divulgazione davvero), significa fare danni credendo di incoraggiare il malato con qualche parola gentile. Ed è anche un notevole “buco” di senso civico, quello che state vedendo. Chiunque stia passando il microfono a un Paolo Cognetti forse ubriaco e ora pubblicamente diagnosticato come bipolare giusto per avere il povero ragazzo che racconta le storie horror sul reparto psichiatrico dell’ospedale italiano sta, nei fatti, compromettendo il lavoro di tutti i medici, gli educatori e gli infermieri che tentano di mediare tra una malattia incurabile e un paziente in caduta libera. Aspetta, possiamo tornare al Tso? Cosa vuol dire Tso? Lo possono fare anche a me? Un ricovero involontario in ospedale psichiatrico – il cosiddetto Tso, Trattamento Sanitario Obbligatorio – è molto difficile da ottenere. Perché scatti il ricovero involontario, una persona dev’essere valutata come altamente pericolosa per se stessa e per gli altri. Quindi ad elevato rischio di togliersi la vita o di mettere a repentaglio la sopravvivenza degli altri. Il paziente viene trattenuto in un reparto psichiatrico per evitare che il paziente finisca in cronaca nera, e il livello di burocrazia compreso in un intervento simile è molto alto. Ad esempio, tanto per dirne una, se in Italia lungo una strada qualsiasi viene chiamata un’ambulanza per una persona ubriaca o in overdose da stupefacenti, e all’arrivo dell’ambulanza quella persona si ripiglia quanto basta e dice “no, non voglio salire”, i paramedici italiani prendono e ripartono pur di non impicciarsi con la persona che ha detto “non voglio salire”. Per un Tso serve l’autorizzazione di qualcuno – un consanguineo o un coniuge – che si assume le responsabilità legali di quello che sta firmando: in alcuni casi, serve l’autorizzazione da parte di un ufficiale pubblico. E di solito l’ultimo accollo che un sindaco o un ufficiale vuole sulle proprie spalle è l’atto di firmare per un ricovero. Questo per dire che se arrivano a farti un trattamento sanitario obbligatorio in Italia, se arrivano a “farti il Tso” (carte, burocrazia, responsabilità, firme), non esistevano più altre possibilità. Anzi, spesso (spoiler) le forze dell’ordine sconsigliano ai parenti dei malati di chiederlo, il Tso, perché “il malato deve presentarsi spontaneamente, potrebbe reagire male a un ricovero”.
Violetta, ma come fai a sapere come funzionano gli ospedali e i ricoveri? Al netto di quello che ho studiato e delle ambulanze che è toccato chiamare a me al Salone del Libro di Torino per gli eccessi di qualcun altro, intendi? Eccoci qua. Alcune estati fa ho visto una donna italiana ubriaca fradicia a metà mattina venir caricata in ambulanza perché stava sbroccando in un piccolo comune dell’Emilia-Romagna. Questa signora era arrivata dal nulla, si era pisciata addosso in municipio, andava accusando varia gente di averla “sabotata” facendole perdere i treni e gli autobus, e urlava “pretendo giustizia!”. Sull’ambulanza l’hanno caricata a forza (ha firmato il sindaco), l’hanno portata all’ospedale del capoluogo di provincia più vicino, ma poi in ospedale non l’hanno trattenuta. Perché la signora nel frattempo aveva smaltito la sbornia. In ospedale hanno chiesto “vuole restare per accertamenti?”, lei ha detto “no”, lo staff dell’ospedale ha valutato che chiedere l’autorizzazione per il ricovero obbligatorio sarebbe stato (in breve) troppo sbattimento, e il mattino seguente la donna è tornata dove abitavo io, proseguendo un assedio al paesino che sarebbe durato per dieci giorni. In paese stavano girando un film, questa entrava a forza in tutti i luoghi della produzione del film, puntava le porte degli alberghi in piena notte, fammi entrare devo parlare pretendo giustizia: la situazione è finita solo con il termine delle riprese del film, la matta sarà migrata su un altro set di un altro film. Io so solo che l’intero comune ha tirato un sospiro di sollievo quando non abbiamo più avuto quella matta in particolare a due passi da casa nostra. La parte dove tentiamo di distinguere tra un essere umano e un’operazione commerciale. Grazie alla recente offensiva sui giornali scopro che Paolo Cognetti avrebbe attraversato diverse fasi di militanza in diversi gruppi ad alto tasso di infiammabilità: sarebbe stato un fervente cattolico, poi un ambientalista, poi si sarebbe avvicinato a “circoli anarchici” (oddio, un altro, non bastava Caffo). Al netto delle sue convinzioni del momento, è stato un ragazzo di Milano che scriveva racconti brevi, e poi è stato “un’operazione” (questa ve la spiego tra poche righe), fortemente voluto e in buona misura plasmato da una bollicina di addetti ai lavori. Queste persone in Paolo Cognetti hanno sempre visto quello che volevano vedere loro. Ha cominciato minimum fax pubblicandogli due insulse raccolte di racconti scritti con la mano del ragazzetto che copia malamente la narrativa americana tradotta in italiano, senza nessuna visione, ma siccome purtroppo questi racconti uscirono con in copertina il marchio Minimum fax, sopra l’individuo Paolo Cognetti venne messo il timbro dell’autore letterario. Lui non aveva niente da dire, non era nemmeno bello e di persona era un buco nero dove il carisma andava a morire, ma gli è stato via via costruito intorno uno stranissimo culto della personalità sulla base delle proiezioni di chi voleva uno “scrittore maschio profondo”. Sinceramente a me di lui è sempre rimasta impressa la mancanza di talento naturale abbinata alla determinazione comica di chi voleva farlo saltare fuori come nuovo grande autore. Mi venne detto che lui era ricco di famiglia e che la sua “vita in montagna” da “ragazzo selvaggio” consisteva in qualche mese all’anno in una casa di lusso, con il resto dell’anno passato a fare lo struscio nei salotti milanesi. Prima di diventare famoso, naturalmente, lui mi ha mandato un paio di messaggi dove mi raccontava che insieme a un suo amico parlava di film porno in un baretto di montagna. Io ho pensato “siamo messi bene” e ho evitato di frequentarlo. Se davanti a te vedi “il corrucciato appassionato di montagna” e subito dietro vedi “un tizio che beve come una spugna e te lo scrive al telefono”, uno così non lo puoi scambiare per un uomo profondo. Al massimo sei tu che ci vuoi vedere un uomo profondo. O ti stanno lavando il cervello per farti credere che lui è un uomo molto profondo. Pausa. Qui mi tocca ripetere il nostro assunto di partenza: non penso che Paolo Cognetti sia “una brutta persona”. Non penso che sia “un uomo cattivo” e non penso che sia “in mala fede”. Ma sono convinta che l’ultimissima cosa da far fare a un uomo con due Tso in meno di dodici mesi fosse mandarlo in giro a rilasciare interviste shock-horror poche ore dopo il secondo Tso in meno di dodici mesi. La ragione per cui l’avete visto a rilasciare interviste dopo il suo secondo Tso nel giro di dodici mesi è che alcuni anni fa sulla pelle di Paolo Cognetti venne fabbricata quella che in gergo si chiama “un’operazione”: venne venduta una sua curatela per una raccolta di racconti su New York scritti da autori americani, e ci fu un’asta per il romanzo Le otto montagne quando Le otto montagne era soltanto un progetto di libro; Einaudi acquistò il pacchetto a caro prezzo (non ho mai capito se l’hanno comprato a partire da un riassunto della trama con tre capitoli di prova o soltanto da un riassunto della trama, ho sentito versioni diverse della stessa trattativa), e poi ci fu un enorme sforzo economico e promozionale per spingere l’autore. Il culto della personalità era cominciato prima, ma è partito in pompa magna con “l’operazione” volta a trasformare Cognetti in uno scrittore famoso. Alla luce di ciò, trovo profondamente ridicolo che oggi Paolo Cognetti sia lasciato libero di raccontare se stesso come un povero ragazzo allo sbando nel reparto con i dottori cattivi che gli ficcano “la siringa nella gamba”. È un ritratto infantile, ma cosa ti aspetti che racconti di un ospedale psichiatrico uno che da tutta la vita campa sulle proiezioni degli altri. Forse questo baraccone avrebbe potuto essere evitato se Cognetti fosse stato inquadrato e seguito per quello che era – uno dei molti, uno che “voleva fare lo scrittore”; uno che, se tanto mi dà tanto, il disturbo bipolare lo stava covando fin dall’adolescenza (di solito attacca in quella fase) e avrà passato mesi o anni sbarellando mentre il gruppetto del momento pensava che lui “forse aveva bevuto un whisky di troppo”, il tipico milanesino da festicciola informale nel quartiere Garibaldi dove le persone normali smettono di andare con la fine delle scuole superiori perché alla festicciola stanno tutti in botta di coca quando non stanno dicendo “la società” (nemmeno il numero di telefono gli devi dare a questi, se dicono “ci rivediamo?” tu rispondi “sto lavorando”). Tornando un attimo all’operazione editoriale che vi ho raccontato. Il prevedibilissimo “non detto” di un’operazione del genere è che poi la limitata qualità del libro diventa un fatto sulla bocca di tutti ma sempre commentato a bassa voce tra addetti ai lavori, che fino a poco tempo fa si guardavano bene dal parlarne in pubblico perché non volevano inimicarsi gli editor di Einaudi (aspetta, la stessa Einaudi che ha fatto fare quanti libri al “filosofo Leonardo Caffo”? Quattro libri? Quattro libri a Leonardo Caffo, Einaudi? Ci salutiamo con Buon Natale?). Questo non cambia il fatto che Paolo Cognetti l’hanno sempre venduto come un personaggio prima che come uno capace di scrivere un libro dall’inizio alla fine – “l’esperto di narrativa americana”; “l’amante della montagna”; il “pensatore ambientalista” che si tira dietro quel suo povero cane in luoghi rumorosi, affollati e malsani (io ho avuto il cane di Paolo Cognetti accucciato tra i miei piedi tutto il tempo mentre stavo facendo un reading di Carne viva sul palco di Macao, provo ancora pena per il cane trascinato a Macao). Adesso con le interviste del dopo-ricovero saremmo alla fase del “personaggio Paolo Cognetti” in cui Paolo Cognetti ha assaggiato la fama e non gli è piaciuto. A parte che “la fama” era sei-sette anni fa, posso confermare che quando il romanzo di Cognetti vinse il premio Strega nell’arco di pochi mesi la conversazione si era già spostata da “Cognetti vincitore annunciato dello Strega” a “la madonna che libro inutile”. Certamente la frattura tra la limitata stima che c’era di lui nel mondo reale e una testa sfondata a furia di ripetergli “Paolo tu sei bravissimo!, gli altri sono invidiosi!” non avrà aiutato Paolo Cognetti a “vivere la fama” in maniera razionale. Come non avrebbe aiutato nessuno. E tra l’altro vedere uno che oggi tutti sanno essere alcolizzato mentre si attacca al collo della bottiglia del liquore Strega sul palco del premio Strega trasmette un disagio bello potente anche in fotografia. Chi dovrebbe prendersi la responsabilità di questo degrado: il singolo essere umano che “non ha retto il vuoto dopo il grande boom”, chi ha sorriso consapevole di stare spingendo un prodotto così così perché quell’anno al premio Strega era il turno di Einaudi e avrebbe vinto uno stuzzicadenti con il marchio Einaudi, oppure chi ha cucito tutta la mistica del guru saggio addosso a un uomo affetto da una malattia mentale cronica? Ah, ovviamente Cognetti, a suo tempo, era molto felice dei soldi e del successo che ora gli fanno un tale schifo – avrà cambiato idea? Può capitare. Lui dei soldi e del successo raccontava meraviglie e cercava di portare chiunque altro a bordo della stessa barca. Cognetti cercava di convincere altri scrittori e illustratori a “fare come lui”, visto che determinate scelte “avevano fatto tanto per lui”. La frase testuale era “guarda (persona X) cosa ha fatto per me!”. Lo dico perché lo so. Socialmente vi confermo che una serie di colleghi Paolo Cognetti l’hanno tenuto alla larga, dopo “il grande boom”, non per invidia ma perché Cognetti veniva visto per quello che era: un tizio buttato sul palcoscenico a fare il fenomeno. Un tizio che adesso infatti sta lì con gli occhi di fuori a straparlare di catene e di orrori indimenticabili all’ospedale Fatebenefratelli di Milano (ah no, scusate, la parte delle “catene dopo il Tso” è già scomparsa come per magia da quell’intervista) – un ospedale, lo dico per i non milanesi, dove mi risulta sia piuttosto difficile trovare una barella libera, altro che “sveglie alle sei di mattina” e “bicchieroni di farmaci” da prendere senza un fiato. Lo so che non sembra, ma Cognetti a questo stadio mi mette tristezza. È un alcolizzato bipolare: mi chiedo quanti altri soldi quante persone vogliano ricavare da un alcolizzato bipolare che dovrebbe stare a riposo, non in giro a fare le interviste dove spara cazzate sulla sanità pubblica. (“Incatenato dopo il Tso!”). In fondo Cognetti è stato il pupillo, no, il maschio-bambolina di un certo giro editoriale: adesso alla loro bambolina hanno fatto due ricoveri nel giro di un anno. Chissà con chi lo sostituiscono, e se impareranno mai a valutare le persone, gli intermediari (quasi sempre intermediari donne) che per alcuni anni del passato recente amavano stabilire come e quando lanciare il maschio del momento: groupies, mogliettine, fidanzatine, doppie e triple addette stampa, agenti-manager-migliori amiche, e via. Niente di troppo strano – ogni regime ha le sue pupe, come ogni branco femminile sta sempre cercando un uomo da spingere come “il ragazzo sensibile”, meglio se uno “talmente remissivo e schivo che ci dobbiamo pensare noi ai suoi interessi”. Soltanto che là dentro nessuno di loro, uomini o donne, ha mai davvero saputo cos’è la celebrità, e nessuno di loro ha mai voluto imparare l’ABC della persona famosa (non le ho fatte io le regole): devi essere gentilissimo sempre ovunque con tutti; devi essere sempre di buon umore; devi andare tu a presentarti cortesemente a tutti quando arrivi a casa d’altri; non devi mai, per nessun motivo, smettere di salutare; e se sei stato in ospedale, devi farne una, di intervista sull’ospedale, non dieci interviste sull’ospedale quando non sei nemmeno finito di uscire e stai dicendo che comunque va tutto bene perché l’anno venturo tieni un corso di scrittura creativa a Marrakesh. Sì, Paolo Cognetti ha già detto anche questa. Io propendo per “corresponsabilità da parte di chi il microfono lo doveva spegnere e dire Paolo ti intervistiamo settimana ventura”. Possiamo dire che questo è un pessimo riposizionamento da parte di chi sta “gestendo” Paolo Cognetti, qui e ora, o c’è sotto dell’altro? Possiamo dire che il “caso Cognetti” è finito sui giornali con lo stesso registro assurdo che sto notando ovunque nei media italiani quest’anno, per cui “il povero ragazzo famoso” viene intervistato in maniera demenziale pur di sentire cosa dice “il povero ragazzo famoso” (la peggiore intervista a Leonardo Caffo l’ha fatta Ilaria Gaspari su “Sette” quando il processo a Caffo era ancora aperto), senza nessuna reale domanda, e senza l’ombra di una verifica sui fatti raccontati dai presunti protagonisti. Che stiano parlando dell’ospedale psichiatrico alcune ore dopo essere stati dimessi dall’ospedale psichiatrico o siano freschi reduci dall’aula di tribunale dove stanno venendo processati per aver picchiato l’ex fidanzata, “i poveri ragazzi famosi” vengono intervistati come fossero vittime di guerra in categoria protetta. Detto ciò, se oggi stiamo assistendo all’ennesima operazione commerciale pensata intorno a Paolo Cognetti (stavolta il pacchetto sarebbe “ricovero in ospedale psichiatrico più interviste a caldo per rivelare che Cognetti sta già scrivendo il libro sull’ospedale psichiatrico”), qui avremmo l’aggravante che l’operazione “Paolo Cognetti bipolare alcolizzato parla di Tso meno di 48 ore dopo essere stato dimesso dall’ospedale Fatebenefratelli” sarebbe stata voluta da terzi, e allora qui ci troveremmo davanti a un caso da manuale di circonvenzione di incapace. E se invece starebbe muovendosi tutto da solo Cognetti, allora Cognetti sarebbe ancora in una condizione delicatissima senza più intorno un conoscente che gli faccia il gesto del “meno”. Il celebre cantautore Vasco Brondi che leggo sui giornali sarebbe uno dei rari amici attuali di Paolo Cognetti, che fa, dorme? Brondi: reagisci. Brondi, lo sai come funziona. Brondi, lo sai come funziona, vero? Oppure anche tu sei in fase “bih boh bah la fama nn so”? Un tuo amico che ha dato fuori di matto e si sarebbe trovato “la polizia sotto casa”, tu da amico lo proteggi, non lo lasci andare davanti a una telecamera a parlare del “regime carcerario” dei reparti psichiatrici degli ospedali italiani. Nelle ore in cui scrivevo questo pezzo, ho consultato diversi professionisti della salute mentale, ho mandato un paio di messaggi, e le voci, com’è naturale, stanno circolando furiosamente. Una libraia mi racconta di aver visto Paolo Cognetti a Milano per una serata lavorativa circa tre giorni prima dell’ultimo ricovero. Mi racconta che Paolo Cognetti era “sbronzo marcio” e che nessuno interveniva perché nessuno sapeva cosa dire: Paolo Cognetti avrebbe sbraitato contro una ragazza presente, colpevole - nella testa di Cognetti - di volersi far firmare “un libro di cinque anni fa”, e Cognetti a questa ragazza avrebbe strillato, “mica vieni qui a farmi firmare un libro di cinque anni fa!”. Ciliegina sulla torta: la ragazza non aveva con sé nessun “libro di cinque anni fa”. Gran bella idea mandarlo subito a fare cento interviste, uno messo così. Se è stato lui a voler fare cento interviste subito, allora hanno sbagliato quelli che gli hanno dato corda. Se c’è qualcun altro a gestire “la regia dell’operazione”, quel qualcuno si sta muovendo con un cinismo disumano, perché sta spolpando fino all’osso un malato mentale cronico, perché sta guastando il lavoro svolto da tanti professionisti che non vanno in Tv, e perché nessuno ha considerato la realtà: a ogni intervista di Paolo Cognetti, con i cuoricini e i guarisci presto! degli spettatori in vena di buoni sentimenti natalizi, ci sono migliaia di medici, infermieri e assistenti sociali che stanno dicendo “questa cosa raccontata in questi termini nel 2024 non può succedere, questo qua non sta ancora bene”.