È possibile mettere l’umano tra parentesi? Non esiste storia che non sia raccontata e, negli ultimi secoli, scritta da una mano. Però questa contraddizione esiste, è reale, ed è al centro di Romanzo senza umani (Feltrinelli, 2023) di Paolo Di Paolo. Una storia non può parlare da sé, ma tutto ciò che dice finisce per far apparire l’uomo del tutto trascurabile. Di Paolo scommette su questo concetto e, prima ancora, sulla lingua, chiedendo al lettore non lo sforzo superfluo dello sperimentalismo da retrovia, da nicchia, ma quello necessario per entrare nella vita di un’opera. “Ogni romanzo è un organismo, è dinamico” dice. Prende la nostra vita e i nostri ricordi e li rimescola. Gli autori che ruminano dietro Di Paolo sono Flaubert, Tabucchi, Tondelli; ma anche il grande giornalismo italiano, Montanelli su tutti (di cui ha curato nel 2008 l’antologia di scritti La mia eredità sono io. Pagine da un secolo e nel 2012 l’epistolario Nella mia lunga e tormentata esistenza). Nonostante chieda alla letteratura un’alternativa alla classica storia lineare (“la trama è un pretesto”), Di Paolo ha sempre affiancato, anche durante gli anni di gestazione di Romanzo senza umani, l’attività sui giornali. E prima di lui altri, proprio Tondelli, ma anche Dino Buzzati, hanno trovato nella cronaca un espediente per rimanere ancorati alla realtà. Paolo Di Paolo è uno scrittore erudito e, come Borges, un lettore appassionato, e come tale può parlare di ambientalismo, politica e letteratura senza confondere i piani, rinunciando al “commentismo”. Forse uno scrittore che commenta il presente è tale solo se, alla domanda di un direttore di giornale che chiede un articolo “perché serve lo sguardo di uno scrittore”, accetta e fa, prima di tutto, il cronista, evitando di piegare gli eventi sotto la sua penna, ma ampliando piuttosto la sua scrittura e, con essa, il mondo che si rende disponibile. Come ci ha spiegato Di Paolo, bisogna essere “disponibili alle occasioni”.
“Questo libro non è scritto da un’intelligenza artificiale” e in un post spieghi che questa avvertenza serve per rimarcare una differenza. Quale?
Mi ha colpito il pregiudizio di chi leggendo credeva che io fossi contro l’intelligenza artificiale. Sono molto meno apocalittico di molti e sono molto aperto alla tecnologia. Questo non toglie, però, che il valore aggiunto di un romanzo scritto da un’intelligenza umana è che sia nato con la gastrite, con tutto quello che di umano porta con sé il gesto creativo. Quindi le mie inadeguatezze, le mie imperfezioni, tutti i fallimenti dei tentativi. Magari un romanzo scritto da un’intelligenza artificiale potrebbe essere tecnicamente perfetto, così come le grafiche di una copertina per esempio. Ma una persona che lavora nel campo creativo nel 2023 dovrebbe porsi proprio il tema della differenza, non della perfezione. Questo rischio umano è il segno di una macchia che le intelligenze artificiale non hanno.
Durante la pandemia l’uso della tecnologia è stato pervasivo. Credi che questo abbia contribuito a ripulire la macchia di cui parli?
Non credo, perché dipende da quello che metti in gioco. La pandemia e una certa impalpabilità dello staro al mondo, questo dare moto (da-remoto) a tutto in un modo o nell’altro era comunque fatto in modo integralmente umano, di saliva, di fiato, di pelle. C’era un equilibrio. Ora invece mi fa sorridere vedere degli inviti che ti arrivano per e-mail in cui si specifica che mi vorrebbero in presenza. Si è istaurata una dicotomia che non avremmo mai immaginato prima della pandemia. Per fortuna ancora esiste una “presenza” e possiamo anche difenderne lo statuto, la sua differenza appunto.
Romanzo senza umani arriva a quattro anni dal tuo ultimo lavoro narrativo. Cosa ha fatto nel frattempo il Di Paolo narratore?
Ha fatto quello che fa sempre, dominato da una sua nevrosi bulimica. Mi affascina molto il modello di Weekend postmoderno, una raccolta dei lavori per giornali di Tondelli. È un tentativo di buttarti nella mischia, di prendere tutto come un’occasione, dall’articolo su un intercity diretto non so dove, a un vernissage o a un incontro fortuito. In questi quattro anni ho lavoro sui giornali e ho trovato un modo di restare nel presente. Molti miei colleghi, poi, che credono di essere salvi da questo tipo di ricatto, anche solo di natura economica, che può essere il dover scrivere per dei giornali, poi sono spesso molto lontani dalla realtà. Magari un redattore stizzoso ti chiama nel tardo pomeriggio per mandarti a una manifestazione di ambientalisti e quando chiedi perché ti risponde: “Perché serve lo sguardo di uno scrittore”. Non vuol dire niente, ma nonostante questo il fatto di essere andato può diventare un’esperienza che si sedimenta e puoi riutilizzare in un romanzo. Ecco, sono stato disponibile alle occasioni.
Hai anche scritto saggi e narrativa per ragazzi dal 2019 a oggi.
Sarebbe quasi stucchevole se riuscissi a scrivere un romanzo all’anno. E poi ho bisogno di variare. L’idea di Romanzo senza umani arriva nel 2020, in pieno periodo pandemico, poi ha richiesto, come sempre per i romanzi, dei tempi e una gestazione particolari.
Noti una tendenza da parte degli scrittori a occupare uno spazio giornalistico senza davvero interessarsi, come hai detto, alla realtà?
In molti casi c’è una tendenza dei miei colleghi a farsi calare dall’alto. Questo non ti consente di entrare in confidenza con dei pezzi di realtà. Ho l’impressione che prendere un autobus ogni tanto farebbe bene ai miei colleghi. Io ho smesso di guidare da cinque, sei anni e sono costretto a prendere i mezzi pubblici. Questo mi riporta a una certa materialità, concretezza, magari anche a un certo afrore del mondo. Certo, c’è anche un altro problema. I giornali spesso ti chiedono “un commento”. Non è un racconto, una cronaca, ma un’opinione che può portarti spesso a essere stucchevole, banale, persino retorico.
Tu un bus lo hai preso e sei andato al lago di Costanza, il lago ghiacciato del tuo romanzo. Uno scrittore che parte per un viaggio del genere, cosa porta?
Parte con un libro, La storia culturale del clima di Wolfgang Behringer, con un paio di mutande e con poco altro. Il primo viaggio che ho fatto al lago di Costanza lo avevo legato a un altro impegno che avevo per la traduzione tedesca di un mio libro. Arrivato lì in un pomeriggio ventoso mi sono sentito scemo. Non c’era niente da osservare. Vedevo questa umanità lacustre, un po’ turistica e un po’ residenziale, ricordo un’orca gonfiabile su un balconcino e la puzza di olio bruciato che veniva da un caffè pizzeria italiana. Avevo un quaderno ma non sapevo bene cosa annotare. Poi mi sono forzato, sono tornato altre tre volte e lì ho compreso che tutto quello che avrei potuto fare senza andare a Costanza, avrebbe in apparenza sortito lo stesso effetto, ma immaginare qualcosa non è vedere. Lo scrittore ovviamente immagina molto, ma questa fiducia incondizionata per l’immaginazione è insufficiente. È il frutto di sopralluoghi, dove l’incalcolato aveva più importanza di quanto ero riuscito a prevedere. Questo mi ha permesso di avere una concretezza di cui non avrei fatto potuto fare a meno.
Quanto c’è di trama e quanto di riflessione in Romanzo senza umani?
C’è tutto, ma il pezzo meno fondamentale è la trama. Mi ha impressionato una recensione uscita su un giornale in cui si diceva che il mio romanzo, a un certo punto, perdeva il filo narrativo. Ma non lo perdo involontariamente. Che un recensore nel 2023 non capisca che è voluta quella disarticolazione della trama… non l’ho inventato io il romanzo non lineare. Il punto è proprio quello. Oggi non riusciamo, spesso, a cogliere la consapevolezza di un gesto creativo. Può non convincerti, ma la tua inconsapevolezza non può portarti a credere che l’autore sia inconsapevole. Questa presuntuosa incapacità del lettore e recensore mi inquieta. Ci sono anche le chiavi di lettura, un’epigrafe sibillina di Peter Handke per esempio.
È un problema dei lettori in generale?
Io non pretendo nulla dal lettore. Può non piacere il mio romanzo. Pensa, non c’è un assassino nel mio libro. Ma c’è una certa tradizione letteraria nella quale provo a inserirmi. Se sei un critico vorrei lo riconoscessi. La trama, per me, è un pretesto. Ma i libri che ho amato spesso sono così.
Libri come?
Il libro del cuore, per usare il linguaggio di qualche classifica apodittica, è L’educazione sentimentale di Flaubert. Qual è la storia? Uno si innamora di una sconosciuta, la insegue per decenni con un amore solo mentale e poi quando la incontra alla fine si accorge che non la ama più. E Flaubert ci spende trecento pagine e c’è chi obietta sulla lunghezza del libro. È una cosa assurda e surreale. Perché trecento pagine? Perché la scommessa è su altro, non sulla storia. Pensaci. Alla fine dei libri spesso ricordiamo le digressioni riflessive. La storia, spesso, la dimentichi.
Commentando la vittoria del Nobel di Jon Fosse, riprendendo anche quanto detto da Rosella Postorino, facevi notare che in ballo, nella letteratura, non c’è soltanto capire se ci piaccia o meno un libro, ma capire cosa vuole offrirci un certo lavoro sulla lingua. Allora ti chiedo cosa vuole offrirci il tuo lavoro sulla lingua, soprattutto in quest’ultimo romanzo.
Un’alternativa. Nel momento in cui le altre storie manifestano la loro forza a prescindere dalle scelte lessicali o sintattiche, quello che la letteratura fa – e così il giornalismo al massimo grado – è il lavoro sulla lingua. Un libro dovrebbe produrre un rapporto virtuoso tra i contenuti e il modo in cui questi contenuti passano da una lingua incredibilmente specifica, cioè intenzionale e consapevole. Bisogna produrre una vertigine nel lettore. Porta a dire: “Guarda com’è detta”. La scommessa è sempre linguistica, altrimenti si finisce per usare le parole come un attrezzo qualunque.
Ma non rischia di diventare una moda, un modo facile di sentirsi scrittori impegnativi, di nicchia? Chesterton diceva che un tempo la letteratura migliore era fatta di personaggi piatti e una trama raffinata. Oggi non si rischia di scadere nell’opposto?
Certo, ci sono dei picchi che diventano moda e retorica. Si tratta comunque una moda di una minoranza, se pensi alle proporzioni tra questo genere di libri e la letteratura di genere invece. Tuttavia certo, in molti oggi non lavorano su trame originali. Ma l’originalità non è ciò su cui si punta. La differenza la moda e qualcosa che può produrre un’emozione in modo nuovo è il tentativo di scrivere no per motivi fini a se stessi. Quando scrivi solo per rendere difficile la vita al lettore, allora diventa posa. Certo, ci sono libri dichiaratamente illeggibili come Finnegans Wake di Joyce, ma sono estremi. Chi poi prova a seguire un estremo del genere come potesse diventare una costante della letteratura, allora i libri diventano oggetti non sono modesti, ma anche trascurabili. Quanti libri del gruppo 63 o dell’école du regard, sono diventati illeggibili? Magari hanno avuto un peso culturale, ma non sono entrati nella vita del lettore.
Nel romanzo scrivi: “I nuovi maestri sono il contrario degli antichi, gente dalla memoria corta e dall’esperienza esigua”. Mi è tornato alla mente un dibattito tra Alessandro Baricco e Paola Mastrocola, che si interrogavano sul tipo di cultura (o acculturazione) più adeguato al nostro tempo. Per Baricco una cultura da surfista, per così dire, più superficiale ma veloce ed estesa; per la Mastrocola, invece, una cultura da palombaro. Ti senti più surfista o palombaro?
Sono nato negli Anni Ottanta, quindi ho ricevuto un’educazione da palombaro impartita da palombari. Poi con l’arrivo del Nuovo Millennio ho guardato con grande interesse dalla spiaggia i surfisti. Non per essere ecumenico, ma il presente di consente solo di trovare una via di mezzo tra surfismo e palombarismo. Se fai solo surf finisci per sentirti quasi inconsistente, fin troppo leggero.
Un’altra citazione dal tuo romanzo: “Senza la paura, il lago è un lago”. Oggi le due maggiori visioni del rapporto tra uomo e naturale sono quella strumentale, che vede nella natura una risorse da consumare, e quella degli ambientalisti, che quasi umanizzano la natura, come una madre che soffre o che piange. Il tuo protagonista sembra tenermi equidistante da questi due eccessi. Anche tu?
Queste prospettive, anche quella del “cuore sanguinante”, per usare un’espressione di Virginia Woolf, rischiano di sfociare nella retorica. C’è qualcosa di più a monte, così a monte da risalire al De rerum natura di Lucrezio, un’opera che ho tenuto a mente durante la scrittura di Romanzo senza umani. Mi sento parte di questo paesaggio che ci include ma che non si cura di noi. Noi possiamo aver marcatamente definito il paesaggio, anche snaturandolo o addomesticandolo, fino a umiliarlo e ferito, ma è talmente più largo lo spazio del non umano, che anche la sana petizione ecologista deve essere compresa in un orizzonte molto più ampio. L’umano, e i segni che lasciamo, verranno completamente riassorbiti. Sono stato a San Paulo in Brasile ed è incredibile come in una delle arterie principali della città ci fosse un pezzo di foresta tropicale. Lo abbiamo visto anche nei giorni della Pandemia, quando a piazza Navona era ricresciuta l’erba. Ma ti rendi conto di che tenacia, di che persistenza ha il mondo non umano? Anche noi l’abbiamo, ma la nostra è votata al fallimento.
Mi verrebbe da dire che la storia del mondo è, in effetti, “un romanzo senza umani”.
Ma lo è. Penso anche a delle belle lezioni di Stefano Mancuso. Durante un intervento a Roma, parlando di Darwin, ha spiegato come il vantaggio evolutivo si misuri su migliaia di anni. Anche il cervello dei sapiens, che quantitativamente è il più grosso tra gli esseri viventi, si può giudicare un vantaggio evolutivo non ora, ma su una campionatura di decine di migliaia di anni. A quel punto capiremo se il nostro cervello è stato un vantaggio evolutivo. Certo, il cervello dei sapiens ha prodotto la Divina commedia, ma questo non costituisce nessun vantaggio evolutivo. La storia include l’umano, ma lo ha anche escluso e presto lo escluderà. La storia è anche una storia di umani.
Tuttavia, se a “storia senza umani” sostituiamo, come fai nel titolo, “romanzo senza umani”, non cadiamo nella contraddizione? Come si dà un romanzo senza esseri umani?
Il punto è proprio quello. Il romanzo è, come ogni storia, integralmente raccontata. Questa piccola civiltà di sapiens ha determinato anche questa capacità di narrarsi. Eppure verrà dimenticata. Questo paradosso mi affascina. Perché l’umano resta come un presagio, un’ombra, un ricordo.
Da scrittore, ma anche da cronista, cosa non avrebbe raccontato della vicenda di Giambruno e Giorgia Meloni?
Più che quello che non avrei racconta, quello che non è stato raccontato. Noi siamo sempre “fuori onda”, la nostra vita è un grande fuori onda. Allora mi chiedo: uno come Giambruno perché fuori onda si comporta in quel mondo? Una capacità di contegno sociale perché non interviene a limare queste uscite? Ma anche la pura ipocrisia. Lui si comportava in quel modo a piede libero, in modo del tutto naturale. Ma dov’è scritto che fuori onda sia lecito tutto?
C’è anche il tema della vita privata di un politico.
Penso a un romanzo che in pochissimi hanno letto ma che ho trovato folgorante, pubblicato in Italia da Bompiani nel 2007 e non più disponibile: L’alba, la sera o la notte di Yasmina Reza. L’autrice decise di seguire Sarkozy durante la campagna elettorale che lo poterà a diventare presidente della Repubblica. Partendo da un vero disprezzo per la sua politica, per le sue idee, per la sua fisionomia pubblica, sceglie di insinuarsi nello staff elettorale e quello che vede è che gli unici momenti in cui un politico era solo erano davvero l’alba, la sera o la notte, quando i riflettori si spengono e il codazzo di chi ti segue svanisce. Direi questo, quindi. Qualsiasi reazione, anche la peggiore o più estrema (come chi dice “Le sta bene”), entra in questo gioco. E nonostante io sia lontanissimo da Giorgia Meloni quando lei dice: “Sono un essere umano anche io” provo quasi un senso di tenerezza. Che tu debba vergognarti in pubblico del padre di tua figlia, del tuo compagno, mi lascia attonito. E capisci che la domenica che ha passato è stata davvero una domenica triste.
Parliamo comunque della prima donna premier. E come ha lasciato il compagno, oggetto di critiche per le avance sul posto di lavoro, pubblicamente, con pacatezza e costume, è solo un’altra prova della sua forza e del livello di emancipazione. Non dovrebbe essere un esempio per molte femministe che invece la criticano?
È un fatto che sia la prima presidente del Consiglio, mentre la sinistra non è riuscita a trovare una proposta all’interno che potesse riuscire a ottenere ciò che Giorgia Meloni ha ottenuto. Da questo si deve partire. La sua forza, la sua intelligenza politica sono innegabili. E anche la sua capacità, in un mondo di maschi di farsi largo. Intorno ha degli impresentabili, dei maschiacci grevi, brutali, ma lei è riuscita a porsi sopra di loro. E anche questa scelta dimostra che Giorgia Meloni, certamente, non vive al seguito di nessun uomo. Poi, anche se lei non si direbbe mai femminista ovviamente, ha una certa forza e una certa posizione che le permettono di arrivare a toccare dei punti cari anche al femminismo. Poi magari si contraddice, basti pensare alla difesa della famiglia tradizionale, ma sicuramente non sta dietro agli uomini, né al suo né quelli del suo Partito.
Un’ultima domanda. Storia e nostalgia hanno due direzioni diverse, la prima viene verso di noi, la seconda è orientata verso il passato. Ma gli uomini spesso incarnano la storia attraverso la nostalgia. Lo fa anche il protagonista del tuo libro. Ti senti, a volte, intrappolato nella nostalgia?
Quando vinsi il premio Calvino ormai vent’anni fa, uno dei giurati mi disse: “Leggendo il suo racconto pensavo lei fosse un professore in pensione. Perché è una storia piena di nostalgia”. La nostalgia è un rischio sul piano pubblico, perché un Paese nostalgico, come il nostro, è pericoloso e si condanna a credere che il meglio sia sempre alle spalle. Senza dover investire sul futuro, parola molto retorica e ricattatoria, basterebbe almeno concentrarsi sul presente. Ma la nostalgia sul piano privato è un diritto. Per uno scrittore rievocare un tempo sommerso è un modo per esplorare quanto ha lasciato di inesplorato alle spalle.