Leggevo sul nostro magazine il bel pezzo di Naike Rivelli su anoressia e bulimia (“I rischi del cibo spazzatura?”) e mi è sbucata fuori come un cervo su una provinciale di campagna l’immagine di Karen Carpenter, morta nel 1983 a soli 32 anni di anoressia nervosa. Una delle più belle voci pop(ular) del Novecento, quella di Karen Carpenter. Cristallina, melodica all’inverosimile, disinvoltamente a proprio agio con ogni possibile saliscendi proposto da un robusto brano pop di vecchia fattura (siamo negli anni ’70 americani delle FM, della saccarina nei pezzi d’alta classifica, ci aggiriamo guardinghi tra easy listening, West Coast, eredità beatlesiane). Lei, insieme al fratello Richard, era i Carpenters. Più di 100 milioni di dischi venduti nel mondo, numeri uno su numeri uno nelle classifiche dei singoli, da “Rainy days and Mondays” a quella “Superstar” che nel 1994 coverizzarono addirittura (splendidamente) i Sonic Youth, gli ultimi – in un’ottica alternative – a poter essere sospettati di vantare un passato filo-Carpenters.
Il fatto è che fino a qualche annetto fa “avere un passato filo-Carpenters”, scoperto o coperto che fosse (non ha mai fatto figo ammettere di ascoltare i Carpenters), era cosa piuttosto comune, soprattutto negli States. Poi è successo qualcosa. Di Karen Carpenter ce ne si è dimenticati. Perché? Una teoria bisogna pur ipotizzarla. Togliamo di mezzo immediatamente la questione artistica, Karen Carpenter è indiscutibile sotto ogni punto di vista. Entri in gioco un’altra questione, che ha a che vedere con un’idea “empowered” della donna contemporanea. Ebbene, credo che Karen Carpenter, al di là della tragica morte, sia percepita, oggi più che mai – perché la percezione di chi abita il mondo cambia quanto il mondo medesimo – come una figura femminile debole, che questuava amore e attenzioni attraverso canzoni svenevoli. Una figura troppo fragile, soprattutto se letta con le lenti di oggi. Inclusive, sempre. A patto che chiunque sia incluso (dove? Tra i “normali”?) non sia “debole”. Tutti “fieri”, innanzitutto. Fieri di essere delle me*de, all’occorrenza, ma “fieri”. E non ci si azzardi a vedere in una qualsiasi diversità estetico-corporale una forma di debolezza. Sia mai. Fieri, sempre, anche in quel caso. Poi, in realtà, ci si spalma su Instagram rimpinzati di filtri per correggere il nostro essere umani, ossia naturalmente imperfetti.
Karen Carpenter, alla faccia dell’estetica da Mulino Bianco dei Carpenters (musica carezzevole per cuori semplici, pareva essere. Pareva), cantava il dolore, la fragilità, la vulnerabilità dell’umana imperfezione vissuta come limite invalicabile, cancello troppo alto anche per il più orgoglioso colpo di reni. Che donna poco donna, eh?! Poco importa che l’anno scorso, dalle colonne dell’inglese Guardian, Lucy O’Brien abbia scritto un bel pezzo sulla Karen Carpenter più risoluta, nient’affatto un “pupazzo arrendevole”. Poco importa che anche i deboli, specie nella tradizione pop, abbiano sempre trovato grande ospitalità. Forse oggi non è più così. Altrimenti capolavori come “Goodbye to love” continuerebbero a essere considerati per ciò che sono: melodici squarci nel buio delle nostre notti più cupe. “A nessuno ha mai interessato che io viva o muoia”, e ancora “tutto ciò che so dell’amore è come vivere senza di lui”. L’apertura di “Eve” – l’intera melodia in pochi secondi, ma il pezzo non si esaurisce lì, anzi cresce – verrebbe ancora considerata il gioiello di stile che è. Fieri ma sordi, forse? Perché davvero non c’è scusa per dimenticare Karen Carpenter, più che la prima vittima celebre dell’anoressia, una delle più belle voci mai scese in Terra. Sul web giusto enciclopediadelledonne.it, più di tante pagine strettamente musicali, le dedica un bel ricordo, articolato e sensibile. Doveroso, per un talento tragico come il suo. Devota nel coltivare il canto e l’espressività di una voce che è stata capace di tradurre perfettamente il pulsare inquieto di un’anima tormentata, Karen è morta di anoressia, ma soprattutto per scarsità di amore. Quell’amore che per lei è stato la guerra persa. Le tante battaglie vinte sono state invece tutte le gemme che i Carpenters hanno portato sul tetto del mondo, dalla soave versione di “Ticket to ride” dei Beatles a tutti i brani già citati. Passando per “Yesterday once more”, nostalgica dedica a quei Sixties che, una volta persa la loro ingenua innocenza, hanno lasciato a Karen un mondo troppo duro. In cui ha trovato il successo planetario, ma dove ha anche piantato i semi della sua pianta più nera: l’anoressia.