Ho approfittato giorni fa della terza puntata del nuovo programma di Enrico Ruggeri, “Gli occhi del musicista”, per parlare di Syria. Il programma in questione, sei puntate in seconda serata il martedì su Rai 2, è dedicato ad altrettante grandi figure della musica d’autore italiana. Le puntate dedicate a: Luigi Tenco, Ivan Graziani, Franco Califano, sono già andate in onda. Le altre saranno dedicate a Sergio Endrigo, Pierangelo Bertoli e ad Ennio Morricone. Pensando a questi nomi, penso a Tenco, decisamente tenuto a mente dai cultori del cantautorato per essere il titolare del Club Tenco. Mi è passato per la testa come in genere noi italiani siamo soliti dimenticare i nostri talenti del passato, le recenti vicende, anche da me raccontate, di Angelina Mango, addirittura accusata di essere favorita in quanto figlia di Pino Mango, in realtà dimenticato da molti già in vita. Per questo ho pensato che sarebbe bello, magari in una seconda edizione del programma “Gli occhi del musicista”, che Enrico Ruggeri si occupasse di un artista che davvero è stato rimosso dal nostro immaginario, pur essendo almeno un paio di suoi brani ben presenti nella nostra memoria e spesso anche nel repertorio di chi, specie d’estate, si ritrova a animare le serate pubbliche: Nino Ferrer. Sono ormai venticinque anni che Ferrer non c’è più. Per sua scelta, sempre che sia da considerare scelta un suicidio dettato - si dice - da una forte depressione. Era un artista atipico Nino Ferrer, genovese di nascita ma francese d’adozione, divenuto famosissimo per un paio di canzoni entrate nel nostro immaginario. Canzoni che però a stento riescono a indicarci un talento decisamente più articolato e complesso, volendo anche più colto. Le canzoni in questione sono “La pelle nera”, alcune volte chiamata erroneamente anche “Vorrei la pelle nera”, e “Viva la campagna”, classici degli anni '60. La pelle nera è un RnB di impianto piuttosto classico, alla Sam and Dave, alla James Brown, che presenta un testo nel quale il cantautore, con quel suo buffo accento mezzo francese, ci racconta quanto gli sarebbe piaciuto essere afroamericano, parlando però di pelle nera, per avere il ritmo nel sangue e una serie di altri luoghi comuni che oggi sarebbero messi al bando in un discorso da bar, figuriamoci nel testo di una canzone destinata a diventare una hit. Nel brano si parte citando direttamente dei riferimenti a Wilson Picket al già citato James Brown, andando poi su B.B. King, Ray Charles e il solito James Brown. Più avanti, prima di intonare i versi decisamente più politicamente scorretti del brano, e forse tra i più scorretti di sempre, quelli che parlano di “Arrostire un negretto ogni tanto”, e attenzione, non siamo in odor di Ku Klux Klan, tutt’altro, ma proprio di pura invidia per un talento e un sound che, a suo dire, gli sarebbero preclusi per Dna. Subito prima di parlare di negretti da arrostire cita tale Lewis, pronunciandolo male, al momento che in diversi siti dedicati ai testi delle canzoni è scritto Lawis, a volte con altre storpiature. Siccome si parla di chi ha quella voce ma non ha quella pelle lì, penso faccia riferimento a Jerry Lee Lewis, artista che se la vedeva con Little Richard per ricevere il titolo di più grande performer dell’epoca, sempre e comunque con l’invidia per la pelle nera. Una canzone che voleva essere un sentito omaggio, e indubbiamente lo era, ma che col tempo è diventata improponibile, perché sicuramente considerata offensiva per chi la pelle nera l’aveva davvero. All’epoca, la canzone uscita nel 1967 fece scalpore esattamente per i motivi opposti perché interpretata correttamente come una invettiva contro i razzisti, ancora non stigmatizzati come giustamente è avvenuto dopo. Di tutt’altra natura è la canzone “Viva la campagna“, del 1970, mentre è sempre del 1967 “Il re di Inghilterra”, brano apertamente antimilitarista. “Viva la campagna” è sicuramente stato ispirato dalla decisione di andare a vivere nella Francia rurale, dove passerà buona parte della sua vita privata a Motquc. Lì, nell’agosto del 1998, Ferrer deciderà di uccidersi con un colpo di fucile in un’anonima campagna a bordo della sua auto. Si tratta di una canzone ambientalista e quanto più attualizzabile. L’idea di abbandonare lo stress della città Ferrer l’ha cantato assai prima che diventasse una moda. Già l’incipit: “Io sto in città, come una formica” lascia intuire che al centro dei suoi strali ci sia una certa vita incasellata, omologata, chiusa dentro palazzoni simili a formicai, del resto nel brano seguono a ruota riferimenti alla fretta, si parla di orologi e dell’assenza dei colori della natura, qui indicati come quelli della Primavera, più avanti si parlerà di cemento, di palazzoni, di cartelloni pubblicitari, di macchine, tutto ciò che si contrappone alla vita calma e pulita della campagna, esaltata nel ritornello “La civiltà è bella ma viva la campagna, viva la campagna”. Un brano che si potrebbe iscrivere al filone de “Il ragazzo della via Gluck” di Adriano Celentano, del 1966, dove però è la nostalgia per un passato che non tornerà a distrarre l’ascoltatore.
Due canzoni, “La pelle nera” e “Viva la campagna”, che a loro modo, o meglio al modo di Nino Ferrer, cantautore atipico e decisamente dotato di una personalità importante e di una penna originale, portano avanti temi oggi molto attuali: dal razzismo, appunto, all’attenzione ai temi ambientali, volendo anche un ritorno a una vita più a contatto con la natura. Discorsi come il south working o tutte le variabili di smart working che prevedano un abbandono dei grandi centri abitati sono ogni giorno sulle pagine dei nostri giornali. Le medesime pagine però ci dicono come la cosiddetta Cancel culture, porta tutta una serie di opere a uscire di scena, senza quasi mai tener conto degli aspetti legati alla storicizzazione di certe canzoni, come anche alla loro contestualizzazione. Quanto un testo sia comunque fraintendibile, oltre che frainteso, ci può aiutare a spiegarlo proprio “Viva la campagna”, canzone di suo lontana da qualsiasi tipo di ambiguità. Nel testo Nino Ferrer prende le distanze dalla vita cittadina, indicandone prevalentemente i contro. Io, personalmente, ho conosciuto questa canzone assai dopo la sua uscita, avvenuta quando avevo solo un anno. E l’ho ascoltata per la prima volta in un luogo che con il tema della canzone nulla ha a che fare. Mi è capitato più volte, nei fatti, di incontrare canzoni che poi mi sarei ritrovato a studiare, una volta intrapresa la carriera di critico musicale, in altri contesti. Nello specifico, ho conosciuto “Viva la campagna” allo stadio, per la precisione al Pacifico Carotti di Jesi. Ai tempi seguivo la squadra della mia città natale, Ancona, esercizio che avrei abbandonato il giorno in cui, in seguito a un goal fatto da un diciassettenne di nome Roberto Baggio su rigore i tifosi decisero di invadere il campo, devastando tutto. Una scena surreale, la porta che divideva la curva dai distinti, dove per altro le squadre dovevano passare per entrare negli spogliatoi era stata aperta come una scatoletta di tonno. Un tizio di fianco a me lanciava le proprie scarpe verso il campo. Un altro tizio tirava sulla traversa della porta opposta alla curva una corda, credo per impiccare l’arbitro. Era il 13 maggio del 1984, stavo per compiere quindici anni. Tornando però a quel giorno in cui ero al Pacifico Carotti di Jesi. Non ho memoria di quegli attimi tra il 1980 e il 1985, l'Ancona militava ancora nelle serie minori, sarebbe poi salita in Serie A nel 1992, a un certo punto parte dalla nostra zona questo coro, “la civiltà è bella ma viva la campagna”. Coro che rifaceva perfettamente il verso alla canzone di Nino Ferrer, che però io ai tempi non conoscevo. Come, per dire, non conoscevo “La prima cosa bella” di Nicola Di Bari, il cui ritornello era spesso cantato dai tifosi, in una versione però modificata, sia nel testo che nella melodia. Se infatti Nicola Di Bari cantava: “La senti questa voce? Chi canta è il mio cuore”, allora la questione era tutt’altra, con i tifosi che gridavano “La senti questa voce? Vaffanculo”. Ricordo che un giorno un mio caro amico di nome Roberto mi aveva raccontato di come, andando a trovare suo nonno, quest'ultimo lo avesse accolto intonando proprio il grande successo di Nicola Di Bari, lasciandogli per una frazione di secondo temere che l’anziano progenitore volesse mandarlo a fare in culo, salvo poi seguire pedissequamente il brano originale. Lì per lì, credo - non ho capito bene il perché i tifosi dell’Ancona stessero cantando quella canzone - il sarcasmo, che per altro è tratto tipico dell’essere anconetani, una ironia sprezzante, spesso rivolta contro tutto e tutti, specie gli altri concittadini e tutto quel che concerne la vita pubblica mi era ancora sconosciuto. O meglio, era già nel mio DNA. Il cantare degli anconetani, abitanti del capoluogo, era uno sfottò bello e buono, un sottolineare fingendo in realtà un plauso. Niente di particolarmente offensivo, allo stadio ho sentito ben peggio, seppur la tifoseria anconetana all’epoca fosse una delle più corrette e sicuramente più vicine a me da un punto di vista politico. Ma scoprire il sarcasmo in uno stadio che si chiama Pacifico Carotti, converrete, ha in sé qualcosa di epico. Nino Ferrer, che era autore decisamente ironico, seppur intriso di un malessere costante, lo stesso che l’ha fatto allontanare dall’Italia, dalla discografia e infine anche dalla vita, avrebbe probabilmente apprezzato. Sono cresciuto per 28 anni convinto di essere un cittadino contrapposto nel mio immaginario ai contadini, cioè tutti gli altri marchigiani che vivevano fuori dal perimetro della mia città. Figuratevi lo shock nello scoprire che a Milano, quasi nessuno sapeva neanche dove si trovasse Ancona. Mi era già capitato qualche volta a Bologna negli anni universitari, ma raramente, anche perché non avevo praticamente mai interagito con bolognesi veri e propri, e lì molti degli studenti arrivano proprio dalle Marche. Una volta arrivato a Milano però la realtà mi si è presentata di fronte in tutta la sua agghiacciante verità: nessuno o quasi sapeva dove fosse Ancona. Per molti era in Abruzzo, ma anche se dove fosse l’Abruzzo mi sembrava di intuire ci fosse un po’ di confusione. Dovevo quasi sempre usare Rimini come indicazione, quando la gente mi chiedeva dove esattamente fosse.
Una volta, non farò nomi per pietà umana, un cantante lombardo e amico mi ha invitato allegramente ad un suo concerto. Sapeva che mi trovavo ad Ancona, l'estate la passo spesso da quelle parti, ho ancora i miei genitori lì, oltre che un mare di amici. Voleva invitarmi a una sua esibizione che si sarebbe tenuta la sera stessa, certo senza troppo preavviso. “Ciao Michele - mi ha detto - stasera ti va di venirmi a sentire?”, mi ha chiesto. “Certo, - ho risposto - dove suoni?”. “Dalle tue parti - ha continuato l'amico musicista, aggiungendo - suono a Ostuni”. Ostuni, in provincia di Brindisi, a 550 chilometri da casa mia. Dalle tue parti, per un lombardo. Il fatto è che se si vive nella regione che è il motore dell’Italia, temo si pensi che tutto il resto della nazione è appunto il resto. Idem per un milanese, Ancona è lì, da qualche parte, dopo Rimini. Poi, certo, ci sono i milanesi che invece ci sono stati ad Ancona, e per farti sapere che ci sono stati dicono “sono stato IN Ancona”, sottolineando quel nostro vezzo di dire in invece che a o ad, suppongo retaggio di quando si ragionava per Marche. Ricordo che nei miei primi mesi milanesi, mentre facevo un lavoretto presso un call center che faceva sondaggi telefonici una mia collega mi aveva detto che tutte le estati da piccola andava a mare con la famiglia a Marotta, dipingendola come fosse uno dei luoghi più incantevoli d'Italia. Lo stesso avrebbe fatto poi Enrico Ruggeri, che non a caso lì ha passato la sua gioventù, lì ha scritto Mare d’inverno, lì ambientata, e ora vede la sua firma autografa campeggiare proprio nei cartelloni stradali che ti danno il benvenuto in città, quando ciò è accaduto io sono andato a sentire un suo concerto sul lungomare di Marotta, ricordo bene, poco prima del Covid. Bene, a sentir cantare tutte queste lodi di Marotta, sulle prime, provavo la stessa palese sorpresa che il mio amico Roberto deve aver provato quando suo nonno lo ha accolto cantando “la senti questa voce?”, sorpresa mista a una certa inquietudine. Perché io a Marotta ci sono andato circa due volte in vita mia, la seconda per sentire il concerto di Ruggeri, per altro in quella occasione mi ha anche dedicato Punk prima di te, cosa che mi ha molto lusingato, la prima quando ero poco più che quindicenne, ospite del mio amico Luca. Quella volta ho preso la prima di una lunga serie di ustioni dovute all’esposizione al sole. Sempre in quella occasione ho anche capito perché noi anconetani, tendenzialmente, non andiamo mai al mare a nord di Ancona, a dirla tutta a nord di Portonovo o del Passetto, le due spiagge di roccia che si trovano nel comune della nostra città: perché il mare al nord di Ancona è a prevalenza fatto di spiagge, quindi di sabbia, e presenta un’acqua che rispetto a quella che bagna il Conero è assai discutibile. Che piaccia molto ai milanesi non mi sorprende, del resto a Milano non c’è il mare. Tornando però ai milanesi e al loro rapporto con la mia città, rapporto sostanzialmente rarissimo e comunque irrisolto. Quasi tutti quelli che però conoscono Ancona - mi dispiace scriverlo - la conoscono di passaggio, perché ci sono arrivati per imbarcarsi, diretti verso la Croazia o la Grecia, ora anche l’Albania. Ti dicono quanto sia bello il centro storico e la cattedrale. Lasciando che quel sarcasmo che ci faceva inneggiare alla vita in campagna allo stadio della jesina torni su come un piatto di peperoni mangiato a cena. Lo fanno rispetto a qualsiasi posto, a dirla tutta, foss'anche che stai raccontando di essere stato il secondo italiano a essere mai andato sull’isola di Kuraman, nel Borneo malese, quella che ha ispirato Mompracem a Emilio Salgari nello scrivere la saga di Sandokan. Fatto vero, sono in effetti il secondo italiano a esserci stato, dopo che lo studioso che l’ha scoperta, studioso di cui si è perso il nome strada facendo, e dopo che un altro giornalista ci è arrivato prima di me, quindi tecnicamente sarei il terzo, secondo che però ha visto la lapide che riporta questa scritta “Questa isola ispirò allo scrittore Emilio Salgari (1862-1911) le avventurose gesta di Sandokan la tigre della Malesia per i sogni dei ragazzi italiani. In Mompracem ritrovata (29-8-1991)”, lapide che in realtà è una colata di cemento grezzo su cui lo studioso senza nome ha vergato queste parole con un legnetto, e che il mio collega giunto in zona prima di me non ha potuto vedere perché era brutto tempo e le guide non sono riuscite a trovarla. Tutto vero, e lo so che sto flexando, ma è perché certi aspetti della milanesità mi tirano fuori la carogna e anche perché, ne sono certo, se mai dovessi raccontare la cosa a un milanese, a voce, mi direbbe che, a Labuan, il porto franco da cui si parte per raggiungere Kuraman, famosa per essere l’isola dove viveva Marianna, la perla di Labuan appunto, Carole Andrè per tutti quelli della mia generazione, per cui Sandokan era Kabir Bedi, ecco, lo dicessi a un milanese mi direbbe che come fanno i gamberoni piccanti a Labuan, in quel ristorantino affacciato sul porto, da nessuna altra parte, ristorantino neanche troppo caro. La civiltà è bella ma, certo, ma a volte davvero viva la campagna.