In sala da San Valentino c’è la storia di Mimosa (Rebecca Antonacci) una ragazza romana estremamente introversa, che si ritrova a vivere una notta da sogno (o da incubo) tra Cinecittà e una festa à la Eyes Wide Shut. Saverio Costanzo decide di ambientare questa pessima coming of age story negli anni Cinquanta, nell’epoca dorata dove gli studi romani venivano scelti per le produzioni hollywoodiane, dove quella Babilonia (non solo hollywoodiana) di Kenneth Anger doveva ancora emergere di fronte all’opinione pubblica. Lo spunto della storia è una pagina di cronaca nera italiana, l’omicidio di Wilma Montesi, vittima di un “festino” della Roma bene, abbandonata sulla sabbia come oscuro contraltare del conosciuto Marcello Mastroianni nel finale de La Dolce vita. Ed è qui che Costanzo si diverte a far vedere che non c’è mai stato niente di dolce e che, esattamente come il corrispettivo americano, anche il sogno italiano, nel pieno del miracolo economico, era marcio fino al midollo. Promessa sposa a un tizio insignificante, la vita di Mimosa si divide tra l’amara realtà di una ragazza non piacente -neanche particolarmente brillante- e il rifugio (à la Rosa purpurea del Cairo) del conforto immaginario della sala cinematografica. Un giorno mentre è al cinema con la madre e la sorella più grande, quest’ultima viene invitata da un tipo come comparsa per un Kolossal americano, ed è lì che accompagnando la sorella, Mimosa, persa nei teatri di posa, incontra lo sguardo di Josephine (Lily James) e quest’ultima rimasta affascinata da lei le ritaglia un ruolo nel film, mettendo in moto una serie di eventi dove Mimosa, come Alice, è costretta ad attraversare lo specchio e sé stessa. Per Mimosa inizia un racconto di formazione: dalla perdita dell’innocenza all’acquisizione di una consapevolezza matura per quanto sofferta.
Funziona tutto in questo film innocuo, come in un episodio classico de Il mondo di Patty, da Lily James che interpreta il cliché della diva capricciosa Josephine al Joe Kerry di Stranger Things -principe azzurro di Mimosa- all’affabile produttore Willem Defoe (Rufus Prioi), così come la coming of age story che porta una giovane all’età adulta, è un classico che funziona sempre, ma è proprio Mimosa l’anello debole del film. La recitazione di Rebecca Antonacci è così pessima da risultare quasi voluta, forse per esaltare la completa estraneità del suo personaggio, a una dimensione sola, rispetto a un mondo di stelle e personalità febbricitanti. È un mondo di mostri egoriferiti, quello degli artisti famosi, che scelgono di settimana in settimana, giocattoli umani con cui divertirsi per il tempo di un party, forse perché affascinati di un paradiso perduto di innocenza sull’altare della fama. In tutto questo un leone è fuggito da Cinecittà terrorizzando una Roma che all’alba pare deserta. Mimosa, ridotta come una final girl da film horror, si affiancherà al leone (o meglio, il leone a lei), in un parallelismo così scontato da essere imbarazzante. Finalmente l’alba, accolto più che tiepidamente a Venezia80, è una bella storia mal raccontata; forse in Italia dovremmo smetterla di guardare al passato, raggiungere la consapevolezza che non si possono rimandare indietro le lancette dell’orologio e, finalmente, imparare a immaginare il futuro perché, almeno al presente, in ambito cinematografico siamo molto lontani dalla gloria de La dolce vita.