Tastando il polso debole del cinema dei fratelli D’Innocenzo dopo America Latina -lasciando da parte gli exploits negativi sui social- è inaspettato trovare una serie che a livello semantico è più True Detective della nuova stagione della serie di Nic Pizzolato. L’incipit è molto semplice e nonostante non apporti niente di nuovo funziona, comunque, a livello emotivo: il poliziotto tormentato, impasticcato e con tendenze suicide Enzo Vitello (Filippo Timi) è ossessionato dalla caccia al serial killer Dostoevskij, ribattezzato così dalla polizia per le lunghe lettere che lascia vicino alle vittime dissertando su questioni filosofiche. Come per Rust (della prima stagione di True Detective) coi seguaci di Carcosa, la visione realista -o pessimista a seconda di chi guarda- del serial killer è il perfetto riflesso di Vitello: un uomo sconfitto che si è giocato la credibilità coi colleghi, e un padre allontanato dalla figlia tossica Ambra (Carlotta Gamba) che non gli perdona l’abbandono. Vi basti questo perché nonostante le varie svolte narrative e le stratificazioni si potrebbe dire troppo, ma la scelta di girare in 16mm, le location e la fotografia di Matteo Cocco spingono lo spettatore, come la prima vittima che vediamo del killer, a lasciarsi andare, a non cercare di aggrapparsi alla vita, come alle spiegazioni, durante la visione. È una prova di forza bruta quella dei D’Innocenzo e qui la vincono: vuoi per questa fascinazione che subiscono per l’estetica del brutto, vuoi perché ogni scenografia, ogni luogo scelto (potrebbe essere l’Italia come l’America, il Lazio come altrove) danno l’impressione che se nel mondo esistono la bellezza, la pace, la bontà e la felicità sono in un altrove, un altrove che è appannaggio di altre persone – che non siamo mai noi, o i protagonisti qui presenti- che rimangono fuori dalla scena nel migliore dei casi, e nel peggiore vengono ammazzate da Dostoevskij. “Scrivimi ancora, ti capisco e ti leggo” scrive Enzo, un grande Filippo Timi, al Killer, ormai unico scopo che lo tiene legato a una vita che non vuole portare avanti, rendendolo sempre più lontano dai colleghi, come il nuovo arrivato interpretato da Fabio (Gabriel Montesi), o dal capo nonché migliore amico Antonio (Federico Vanni).
Forse fu Oscar Wilde a scrivere di personaggi mezzi innamorati della confortevole morte, così lo è Enzo che viene introdotto allo spettatore durante un tentativo di suicidio (la vomitata è reale) ma la chiamata di Antonio lo riporta alla realtà: una famiglia è stata massacrata, ed ecco la morte reale e tangibile, mentre quella del poliziotto ha più una connotazione romantica di un corpo che non ha più la predisposizione al suicidio. I fratelli non ci risparmiano nulla, neanche la colonscopia (come in Diamanti Grezzi, e qui si fermano i parallelismi) di Enzo, come la normalità di corpi sformati, di gole recise, di culi per aria esaltati nel loro lato meno piacente, quasi come se la bellezza di un’anima in evoluzione, di un’anima capace delle riflessioni di Dostoevskij -come di Enzo- fosse condannata alla prigionia della carne. In fondo, cosa c’è di diverso da Enzo rispetto alle centinaia di polaroid che ritraggono le vittime? E se l’intera esistenza fosse l’eredità pacco e funesta che ci hanno lasciato i nostri predecessori? Se la vita è una maledizione tanto vale spezzarla con l’omicidio o il suicidio, poco importa. Così vivono i protagonisti di Dostoevskij, sotto quella superficie d’acqua di cui parlava David Foster Wallace. Prodotto da Sky e da Paco cinematografica, Dostoevskij avrà una doppia uscita: al cinema, a giugno, in due parti e in autunno, su Sky, in più episodi per la durata di quasi cinque ore. Per chi come me l’ha visto tutto di seguito, un altro modo di brutalizzarci da parte dei fratelli (come già fece Marco Bellocchio a Cannes con Esterno Notte), vale sia l’esperienza cinematografica che l’attesa televisiva. Nonostante nella prima parte ci sia un po’ di forzatura e manierismo nei dialoghi (quasi fossero stati scritti in inglese e poi tradotti) Timi tiene botta regalando una prova dolente, mettendo in scena un personaggio scritto con cura (cura anche nelle scenografie e che portano in alto il lavoro dei fratelli): ci bastano poche scene per creare un legame emotivo con Enzo benché, di primo acchito, risulti sgradevole e cinico e oltrepassi, per suo piacere personale, i confini della legalità e dell’etica (il pestaggio del pedofilo). Così come si prova tenerezza per quelle zone periferiche laziali, vere protagoniste della serie, perfetto sfondo alla guerriglia che portiamo avanti contro noi stessi e gli altri esseri umani.