E se Vittorio De Sica, uno dei registi più iconici della storia italiana, non avesse capito uno dei suoi film più noti e importanti? Il giornalista Giorgio Dell’Arti ha scovato nei Diari (La Nave di Teseo, 2022) di Cesare Zavattini, un altro peso massimo della cultura italiana e l’uomo dietro al neorealismo italiano, una critica serrata e senza mezzi termini al regista. Zavattini, infatti, è anche autore di Ladri di biciclette, tra le pellicole più famose e citate del Dopoguerra, tra l’altro finanziata da De Sica stesso dopo il flop di Sciuscià. Parliamo di un film selezionato tra i migliori di sempre a livello planetario, allora di ché lamentarsi? De Sica, come scrive Zavattini, in realtà non lo avrebbe capito davvero. Pare, anzi, come evidenziato dai Diari, che Zavattini non avesse grande stima del regista. “Sforzi per convincere De Sica a fare Ladri di biciclette. Gliene ho fatta una seconda riduzione, sempre con l’idea dell’attacchino proprietario della bicicletta, con il figlio e la moglie. Capisco sempre più che De Sica è irritato perché teme che io e Amidei gli chiediamo una somma. Mi dice Amidei che ha detto: ‘Questo Z., caro, caro ragazzo, ma con questi soldi!’ E non gli ho chiesto niente, e mi deve ancora quelle benedette 10.000 di Amato e le 4000 del Cavallo; e non mi ha detto una parola di gratitudine (per non pagarmi) di ciò che ho fatto per Ladri di biciclette. Come uomo, è sterco, privo di ogni generosità. Ieri sera per un’ora a spiegargli lo spirito del film, che non è romantico come crede (‘io non capisco – dice – come la moglie possa essere contro il marito in quanto gli hanno rubato la bicicletta’). Gli dico che la verità è che lui non conosce i poveri, in tutto è piccolo borghese. Glielo spiego in ogni significato ma stenta a capire, vede solo un contrasto facile nel finale tra l’autobus e una bella 6 cilindri” (12 luglio 1947).
Il rapporto professionale di De Sica con Zavattini nasce qualche anno prima. Ai tempi la posizione dello sceneggiatore era più moderata: “De Sica una sera mi propone di prendermi in esclusiva, stipendiandomi ecc. perché faccia del cinema con lui. Gli dico che sono propenso, ma dobbiamo sparare alto (secondo me, lui ha bisogno di almeno un anno intenso di letture, conversazioni ecc., per perdere la sua triste eredità di 30 anni di cattive compagnie e di deserto). Lui ha ancora molta verginità quindi molto è possibile, ha grande intuito, ma deve capire da solo che Pricò, per es., è un film ancora di vent’anni fa (escluse 2-3 cose sue). Ma tutto ciò mi fregherà del tempo (e io ne ho così poco davanti a me, basterebbe che mi dedicassi al diario, non questo)” (21 dicembre 1943). Purtroppo, a distanza di soli quattro anni, l’opinione di Zavattini cambierà in peggio. “In giro con De Sica e Amidei per Roma a scegliere luoghi per il film. Gareggiano a parlare male degli altri. Questa volta partecipo anch’io. Alla fine mi stanco e dico loro che non si può andare avanti così in Italia. Che cosa dovrei dire di De Sica al quale devo spiegare come a uno scolaro di 3ª elementare il perché del film, il suo stile? Mi domanda ancora che cosa vuole dimostrare questo film. Gli dico che una volta si occupavano dei re, nel teatro; o dei grandi borghesi, e giù giù, noi ci occupiamo del furto di una bicicletta a un operaio perché è cosa grande, o meglio importante, come qualsiasi altro fatto antico o leggendario” (6 agosto 1947). Un tempo questi giudizi sprezzanti erano la norma. Forse perché anche attraverso questo genere di contrasti si poteva fare vera arte?