La critica più insistente letta sull’ultimo libro di Houellebecq (Qualche mese della mia vita, La nave di Teseo) è che si tratti di una mera operazione commerciale, costruita per vendere copie sulle spalle di un nome di grido. Viene da chiedersi in quale dipartimento di storia medioevale siano stati rinchiusi i sostenitori di questa tesi negli ultimi decenni, perché qui nel mondo reale le librerie sono piene da un pezzo di oggetti che del libro hanno solo la forma, senza avere nulla a che fare con la letteratura. Al di là dei casi lampanti – libri-gadget di youtuber, vite di calciatori, Vespate semestrali, eccetera – su cento titoli nello scaffale novità, quanti pensate siano nati dal desiderio insopprimibile di un autore di urlare al mondo il suo punto di vista e quanti credete siano frutto di obblighi contrattuali o di intuizioni di un ufficio marketing? Ma questa critica non pare solo esageratamente ingenua; sembra anche esageratamente pretestuosa.
Piaccia o non piaccia, Michel Houellebecq non è solo uno scrittore famoso: è uno scrittore importante. E cosa determina l’importanza, per uno scrittore? Non le copie vendute, per il solito discorso che allora i Me contro te sarebbero più importanti dei Karamazov. Il punto non è quante copie Houellebecq abbia venduto in carriera - pur essendo comunque parecchie -, il punto è che abbia venduto ovunque in Europa, diventando ovunque uno scrittore di culto. Se escludiamo la narrativa di genere, sono pochissimi gli autori che nel XXI secolo sono stati capaci di raggiungere un simile status, quello di essere considerati rappresentativi di una ipotetica “letteratura europea contemporanea”.
Non basta: Houellebecq è probabilmente lo scrittore che più di ogni altro ha avuto un’influenza sul proprio tempo, misurabile nell’incredibile numero di epigoni che negli anni ci hanno ammorbato con i loro maldestri tentativi di imitazione (che cos’è, Marco Missiroli, se non un Houellebecq da oratorio?). Non si tratta, quindi, di gusti personali: si tratta di riconoscere l’importanza del fatto che uno scrittore tra i più rappresentativi della propria epoca abbia consegnato alle stampe il proprio diario in un momento critico della sua vita; e che in questo diario, dopo una carriera passata a costruirsi in maniera certosina un’immagine da anticristo cinico e materialista, abbia trovato il coraggio di mostrarsi esattamente per quello che è: un sessantasettenne depresso arrivato a fine corsa, un uomo che dopo aver passato la vita a scherzare con la morte ora la sente improvvisamente vicina, e a differenza del Don Giovanni, che non si pente e sprofonda all’inferno, tenta un’improbabile salvezza in extremis.
La sfrontatezza degli anni migliori, quelli intorno a Sottomissione, è sparita: Houellebecq non vuole che le sue idee sull’Islam siano fraintese, ci tiene a scusarsi per essere stato ambiguo, poco chiaro in alcuni interventi sulla stampa francese. Ha rivisto certe opinioni sull’assimilazione e vuole farlo sapere, desidera a tutti i costi smarcarsi da chi, negli ultimi anni, lo ha dipinto come un sovranista d’accatto. Un tempo, davanti a un’accusa così campata per aria, si sarebbe esaltato, avrebbe scritto un articolo feroce, ancora più polemico, e la discussione derivante sarebbe stata carne per un nuovo romanzo. Adesso argomenta le sue scuse con pazienza e modestia senile. È questa la parte che più colpisce del libro: la volontà di tirare le somme, cercando di fare il possibile perché quelle somme risultino esatte. È chiaro che il tentativo sia destinato a fallire, lo si vede dai giudizi sprezzanti che hanno accolto l’uscita del libro: a uno scrittore vivente raramente si perdona il successo commerciale, e se questo successo è accompagnato dal talento è la fine. I suoi nemici si sono dovuti accontentare di meravigliose sconfitte dai tempi delle Particelle elementari in poi. Logico che ora, alla vista del sangue, gli saltino tutti insieme alla giugulare.
Addirittura surreale, poi, la parte centrale del libro, quella che riguarda l’improbabile querelle attorno al famigerato film p*rno che lo scrittore ha girato “contro la sua volontà” per un regista olandese, definito nel libro “lo Scarafaggio”, al centro di un triangolo in cui gli altri personaggi sono “l’Oca” e “la Troia”.
Qui siamo alla vita che sfida la finzione e la oltrepassa, all’autore che diventa protagonista di una storia che sembra uscita dalla sua penna. Lasciamo perdere i dettagli giudiziari, la consistenza o meno delle argomentazioni portate da Houellebecq per illustrare ai giudici e ai lettori il presunto raggiro. L’immagine dello scrittore più famoso d’Europa che a pochi giorni dal Natale, per sfuggire ai farmaci e alla depressione, si reca nel gelo di Amsterdam in compagnia della moglie, con l’idea di girare un film hard amatoriale in compagnia di alcune giovani fan, è un’immagine di una brutalità, di un’efferatezza, di una miseria personale così potente da diventare simbolo di una condizione spirituale collettiva, quella di un Occidente al tramonto descritta dal medesimo scrittore in ogni sua pagina, per un’intera carriera.
Non pare. insomma, che questo sia un libro scritto con intento commerciale quanto che sia da considerarsi come un testamento, come l’accettazione di un destino. La vita, alla fine, ha smascherato l’artista, uccidendolo: in una fase storica in cui il giudizio sull’opera è, purtroppo, un giudizio anche sull’autore, sarà impossibile leggere un ipotetico nuovo romanzo di Houellebecq allo stesso modo dei precedenti. Tuttavia, l’uomo ha avuto il coraggio per raccontarsi, e non è cosa da poco. Umano, troppo umano? Certo. Proprio come noi.
Beati i popoli che non hanno bisogno di scrittori antieroi.