Siamo a tre, come da proverbio, perché due non bastavano. In Veneto un altro 18enne si rifiuta di fare l’esame e passa con circa 60 su 100. Tre persone che avrebbero potuto aspirare a circa 80, un ottimo risultato, non eccellente ma dignitoso. 60 lo è meno, 100 lo è di più. Il resto è retorica di seconda mano, da pacca sulla spalla. La lasciamo ai genitori che dicono ai figli “Bravo, campione”. A interrogarci su quanto avvenuto invece dovrebbe spingerci un altro aspetto, anzi due, che si intersecano. Questo articolo è la seconda parte di un altro pezzo uscito qualche giorno fa, in cui si sosteneva che i sistemi di valutazione sono un presidio di civiltà. L’aspetto problematico, semmai, era capire come intenderli all’interno dell’istituzione scolastica. Chiaramente non possono essere un mero strumento di ragioneria didattica, ma vanno interpretati alla luce della loro funzione egualitaria. Sono un linguaggio comune per avere un punto di vista sul livello di ciò che si fa a scuola. Rifiutarsi di essere valutati è rifiutare quel linguaggio comune. E dunque si arriva a ciò che si vuole sostenere in questo articolo. Opporsi all’esame orale è una prova di egocentrismo adolescenziale che dovrebbe farci riflettere. Si tratta di un tentativo di navigare in solitaria rubando una nave in comune con altri, la scuola. È paradossalmente un discorso parassitario, che vive sulla scorta di un sistema disfunzionale lasso e accondiscendente, che tuttavia vorrebbe passare per tollerante. È il problema centrale di quella che il sociologo Luca Ricolfi e la scrittrice Paola Mastrocola definiscono “scuola democratica”. Un sistema che si basa sull’assistenza clienti, sul lecchinaggio ideologico, sulla tendenza ad acconsentire alle mode giovanili, tra cui quella appunto di non dover essere valutati.

Cosa opporre a questi atteggiamenti? Non un comportamento altrettanto pigro. L’inerzia intellettuale di chi sostiene una totale omologazione studentesca è solo un alto modo di non interpretare la dinamica reale e civile che si attua nel contesto scolastico. Un contesto di crescita, dunque di limiti da apprendere, ma anche la cornice all’interno della quale si deve sviluppare non un’inclinazione all’obbedienza, ma al senso critico. Ancora una volta, al sentimento civile. Ed è questo che ha delle regole che vanno fatte rispettare. Non è il conformismo dei grembiuli o il timore e tremore delle insufficienze. È la linea di confine tra ciò è che è lecito e ciò che non lo è, tra ciò che è realmente democratico e ciò che è puramente capriccio. Tra la crescita personale e la crescita egotica di eterni Peter Pan. Ci si sente incompresi per colpa di una scuola che ci appare differente? Bisogna chiedersi se sia la scuola a doverci comprendere nel modo in cui vorremmo. E se fosse la famiglia a mancare? Se fosse in quel “rifugio in un mondo senza cuore” che i giovani dovrebbero puntare a cercare comprensione, empatia e amore? Davvero la scuola deve essere un regime di accoglienza forzata verso paturnie, problemi, difficoltà di tutti? Al fancazzismo pedagogico di chi lo vorrebbe e difende oggi questi ragazzi, opponiamo non un’altra pedagogia, ma una filosofia, una cultura della responsabilità, del confronto e, perché no, della competizione (la grande assente nella società italiana).
