Caro Rocco Hunt, la tua canzone non è “poesia”, anche se chiamarla così può risultare seducente (come ha dichiarato in una intervista sul quotidiano La Repubblica). La canzone è canzone. La poesia è poesia. Queste due arti, seppur accomunate dalla appartenenza al genere “letteratura”, rimangono distinte, ognuna col suo proprio corredo fatto di strumenti formali, tecnici, di regole, storia, ragioni di esistenza, ognuna con la sua propria critica. Benedetto Croce diceva che "fino all'età dei diciotto anni tutti scrivono poesie". Mentre Fabrizio De Andrè aggiungeva: "Dai diciotto anni in poi, rimangono a scriverle due categorie di persone: i poeti e i cretini. E quindi io precauzionalmente preferirei considerarmi un cantautore”. Così dichiarava, in modo scanzonato e irriverente, e forse con una punta di (seppur vanitosa ed esibita) umiltà, la sua dedizione e appartenenza all’arte della canzone. Lo faceva citando Benedetto Croce e la sua crudele ed esatta osservazione sul destino di chi prova nel tempo, superata la primissima giovinezza, a scrivere poesia, e su quanto questo possa essere segno di beota idiozia, in alcuni casi, o di autentica vocazione artistica, sperabilmente, in altri. Ebbene, è quantomai necessario tornare alla severità e alla crudeltà di giudizio, recuperando formule semplici ma definitive di chi conosceva il vero valore dell’arte letteraria, della critica e del magistero nel campo delle arti, in uno scenario ammalato di qualunquismo e di confusione, come è larga parte della scena (pseudo) musicale e dello spettacolo nel nostro paese, tristemente dimèntico della sua storia. Non tentiamo di delegittimare le meritevoli intuizioni musicali di Rocco Hunt, che afferma di cantare l’inferno e il paradiso della sua terra con “la Poesia” (dicendo comunque qualcosa di improprio) quanto piuttosto di contrastare una insopportabile e ridicola approssimazione diffusa che non trova giustificazioni in un paese che è stato la culla delle arti, di altissimi cantautori, compositori, musicisti, come di poeti e narratori, di artisti che, ognuno nel proprio campo, hanno iscritto l’Italia nella costellazione olimpica dell’arte mondiale dove rimarrà in eterno, fino a che ci sarà chi potrà accorgersene.
Per accorgersene, appunto, occorre tornare a una certa severità di pensiero ed al rispetto delle categorie che consentono ad ogni arte di mantenere, pur con le normali incursioni nel campo di arti sorelle o contigue, la propria dignità autonoma, quel coefficiente di proprietà che le sono proprie in modo unico ed infungibile (le origini, i luoghi, i contesti, le ragioni, gli strumenti tecnici e formali, le regole, le declinazioni diverse che avvengono attraverso le sperimentazioni, la critica, ecc..) che vediamo frantumarsi tra le onde sempre più nebulose e imperiose della faciloneria verbale con cui si trattano tutte le arti, non solo la poesia, per cui un buon piatto preparato da un illustre chef diviene “mirabile scultura”, un film di Sorrentino diventa “capolavoro letterario”, l’album del rapper che canta a Sanremo diviene “poesia in musica”. Tutto questo non solo è sbagliato, è anche pericoloso. La canzone è canzone, non è poesia. Il cinema non è romanzo solo perché può dirsi racconto per immagini. E non è poesia. Può esistere il “cinema di poesia”, distinto dal cinema di “prosa” (così ci insegnava anche Pier Paolo Pasolini nel novecento) ma rimane cinema. Il fumetto non è pittura. La danza non è pittura. La scultura non è composizione musicale. E si può andare avanti. La confusione che si crea mischiando e intendendo fungibili e in fondo interscambiabili i nomi e le forme che appartengono ad ogni arte in modo specifico ed individuale è rischiosa e scorretta e non solamente perché tali approssimazioni pericolose offendono la musica e la canzone, la danza, il cinema così come la poesia, ma anche perché finiscono per privare di significato e dignità la storia tutta delle arti, se dietro le arti esiste uno specifico e preciso magistero, una precisa storia, una disciplina, una ragione di esistenza, un luogo e dei luoghi, delle necessità tecniche e formali obbligatorie, che non devono e non possono confondersi.
Esiste, in altre parole, una disciplina, uno studio, e dunque il rigore di portarne il peso e doverne affrontare la conoscenza. Tra chi ha onorato la canzone italiana c’è chi ha fatto poesia in musica, certamente. Ma rimanendo musicisti, non credendosi poeti. Da Angelo Branduardi a Franco Battiato, da Ivano Fossati a Luigi Tenco, loro come altri artisti hanno “messo in musica” testi poetici, ballate, scritti sacri, attingendo al panorama letterario mondiale, ma non hanno creduto di dover qualificare la propria operazione come “poesia”, perché tale non era, e non aveva bisogno di ottenere altra menzione se non quella che le era e le è propria. Se anche tra artisti, deliberatamente, si indugia in questa sciatteria verbale e in queste scorrettezze gravi in fatto di nomenclatura e nominazione delle arti, rischieremo sempre di più di degradare e svilire il significato non solo del gesto artistico in sé stesso, ma anche di tutto quel magistero, di quella storia, di quelle ragioni che lo assistono, e lo precedono, e che in definitiva lo giustificano.