Quando i giornalisti della Sala Stampa del Festival di Sanremo vengono nominati anche di striscio saltano su come difensori partigiani della libertà del paese. Così, dopo un paio di giorni che si lamentavano di contare meno nel sistema delle votazioni, hanno poi scoperto che contano uguale a prima, se non di più. Ammesso che non si voglia fare una "combine". Ed è questa affermazione che fa scatenare il putiferio tra i difensori della democrazia dalle domande ficcanti tipo “Elodie, parlaci del tuo tour negli stadi”. “Mi sembra che qualcosa, l’anno scorso, sia stato fatto”. Apriti cielo, si spalanchino le rotative, si ciclostili se di meglio non di può fare! Mormorìi, mugugni, borbottìi: un velo di impegnata indignazione scende sugli occhi, sul volto, sulle orecchie della Sala Stampa. Tanto che Carlo Conti, ecumenico officiante del Conclave Sanremo, brandendo le sacre reliquie dell’ossario andreottiano, precisa: "Ho fatto una battuta perché lo scorso anno da spettatore ho seguito il polverone su quelli che dovevano votare, non votare. Sono stato frainteso su questa questione della combine, sono consapevole della serietà della sala stampa e della bontà del televoto".
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Adesso. Si parla dei pesi e contrappesi tra voto “colto” e voto “popolano” (si continua a usare “popolare” nel significato sbagliato, che vuol dire invece “famoso”), come se la Sala Stampa del Festival di Sanremo fosse un luogo dove discettare di Stockhausen e Schönberg. Soprattutto in una edizione del Festival dove ti aspetti saltare fuori Claudio Villa e Nilla Pizzi. Ieri abbiamo intervistato Dario Salvatori. Quello sì era un giornalismo musicale che aveva una sua funzione. La chiamavano la musica dei giovani. Fu introdotta (“presentata” si diceva all’epoca) in Italia da Gianni Boncompagni e da Renzo Arbore. Da Umberto Eco persino. Era una musica rivoluzionaria. Andava spiegata. Andava ascoltata in un determinato modo: dall’acustica dei teatri alla cosiddetta acustica tecnica “hi-fi”. Su Rolling Stone scrivevano (sì, e anche su Playboy) Tom Wolfe, Hunter S. Thompson. Si raccontava una nuova cultura, o la si interpretava: l’impatto delle chitarre distorte e dei muri di suono non era diverso dalla funzione dell’organo nelle chiese. Lì nasce il giornalismo musicale, quello vero. Si può davvero parlare di “giornalismo musicale” riguardo alla Sala Stampa di Sanremo? Perché la “combine” attraversa quel luogo come il suono dell’organo Hammond nei concerti rock degli anni ‘70. Scende nella loro anima. Si intreccia con gli uffici stampa, con le interviste esclusive, con i viaggi, con i bagni in piscina, con le case discografiche, se non di voti è una "combine" di culi. Quello di questa edizione è un giornalismo di regime musicale non diverso da quello dei Festival pre ‘68, quando c’erano da commentare, faccio nomi a caso, il Quartetto Cetra e Gino Latilla. Diverso, ovviamente, il discorso per il Premio della Critica “Mia Martini”, che vede quest’anno confermato alla presidenza Andrea Spinelli e come scrutatori Marta Cagnola e Pietro Bevilacqua. Ma è un premio della “critica” e non del “giornalismo”. Quanti giornalisti musicali si sentono critici musicali? Volete una risposta? Tutti. Pochi lo sono davvero.
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