Finalmente arriva Frassica, e almeno per una manciata di minuti a Sanremo si ride davvero. Perché tra standing ovation annunciate e pianti su commissione, serviva una boccata d’aria. Un momento di comicità vera, surreale, intelligente, che spezza il meccanismo sempre più calcificato del Festival della convenienza emotiva.
Musicalmente, nulla di rilevante. Il Festival continua a scorrere in una monotonia dolciastra, con artisti che sembrano tutti volersi rassicurare a vicenda invece di spaccare il palco.
La cosa interessante? La promozione cosmica di Lucio Corsi.
Poverino, pensando al suo prossimo anno dove dovrà sorbirsi questo nuovo mondo extra maremmano: non è colpa del ragazzo, si vede che è vero, che ha un'autenticità di base che lo distingue dal solito manichino da talent. Sembra un cantante indie da centro sociale, di quelli con la chitarra scordata e la birretta calda, ma messo su quel palco diventa qualcosa di più grande, quasi simbolico.
Funziona perché la gente è stufa degli influencer woke vestiti da Gucci, dei testimonial di campagne che predicano umiltà con un cappotto da ottomila euro. C’è voglia di chiudere con questo teatrino, di tornare a qualcosa che assomigli a una realtà non filtrata. Ma se prima la risposta era il radical chic che rifiutava il lusso facendo i milioni con il merchandising del disagio, ora il gioco si è evoluto: qui mettiamo i pacchetti di patatine sotto l’abito, ricamiamo storie di nonnine e Maremma tra una strofa e l’altra, ricreiamo una povertà estetica che diventa ricchezza narrativa.
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Ecco perché Corsi è il nuovo corso. L’anti-influencer perfetto, che sembra arrivare dal passato per salvare un presente saturo di ipocrisia fashion. È il cantastorie medievale proiettato nell’epoca dei social, la faccia pulita che restituisce un senso di verità al Festival in cui tutto è impacchettato come un prodotto da supermercato. Non si vende? Si vende benissimo. Ma almeno qui l’operazione è chiara, senza finti moralismi.
Tutto si incastra perfettamente nel contenitore del volemose bene contiano. La favola a orologeria del Festival prosegue con la performance di Damiano, che ci porta sul palco il bimbo prodigio, chiudendo il cerchio dell’abbraccio collettivo. Un colpo di teatro studiato, con un livello di retorica che ormai non si sforza nemmeno di essere sottile.
Ma la vera rinascita della serata è stata quella di Fedez.
Dalle ceneri dell’ipocrisia dell’influencer, dalle ombre della polemica continua, dalle sovraesposizioni tossiche, torna a fare la cosa migliore che sa fare: scrivere e interpretare. Senza filtri, senza bisogno di strategie social o di battaglie costruite, ma con la musica. Bravo ancora.
Poi c’è il Prefestival, che ormai è un puro contenitore pubblicitario travestito da intrattenimento. Un palinsesto di marchette che cerca disperatamente di fingere di intrattenere mentre infila promo a tappeto.
E infine il Dopofestival, che altro non è che la marchettona gemella del Pre, con la stessa pretesa di spontaneità e lo stesso risultato: un catalogo da televendita con ospiti a rotazione.
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