E così, ieri sera è andata in scena la prima puntata dell’unico spettacolo di intrattenimento che riesce ancora a incollare gli italiani davanti alla tv: Sanremo. Alle 20:40, addirittura in anticipo—evento più raro di un treno puntuale—si manifesta sul palco Carlo Conti, un Cristo di San Fruttuoso, meno abbronzato del solito, che per i primi dieci secondi si esibisce in una perfetta imitazione di un pesce nell’acquario: muove la bocca, ma nessuno lo sente. L’audio? Disperso, evaporato. Un segnale divino? Più che altro un segnale del fatto che ormai Sanremo è una macchina automatica, un format che va avanti da solo, con o senza suono.
Ai cantanti è stato tolto il diritto di parola e, dopo l’esibizione, vengono praticamente cacciati dal palco a calci nel culo, senza neanche il tempo di riprendersi dal playback emotivo. Perché devono “esprimersi con i loro testi”, dice Carletto in conferenza stampa. Peccato che i testi, uno dietro l’altro, sembrino fatti con il timbro, figli delle stesse quattro penne e degli stessi software di produzione che impacchettano hit prefabbricate da algoritmo. Un Sanremo senza parole, dove tutto è calcolato e sterilizzato come una mensa ospedaliera. Di look circensi se ne vedono meno, ed è già una notizia.
Poi arriva l’apparizione family-oriented, quella che fa sentire tutti a casa, nonna compresa: Gerry Scotti. L’ospitata che non sapevamo di volere, il comfort food della televisione italiana, l’uomo che ti spiana le rughe dell’anima con un sorriso rassicurante da quiz pre-serale. Gerry è la TV che non fa male a nessuno, la coccola nazionalpopolare, il rifugio sicuro per chi vuole spegnere il cervello senza sensi di colpa.
Gli hanno cucito addosso il ruolo del fratellone milanese pseudo-comodo, la spalla perfetta per Conti. Solo che, a dirla tutta, ’sta parte gli sta stretta. Scotti ha sempre avuto una sua regalità nel piccolo schermo, una presenza da re del quiz che lo rende più conduttore che spalla. Qui, invece, lo vediamo in una versione un po’ arrangiata, da gregario di lusso, da uomo d’ordine nel caos dell’Ariston. Lo fa con la sua solita classe, ma la sensazione è che—se gli avessero messo in mano un pulsantone rosso e avessero trasformato Sanremo in una puntata speciale di Chi Vuol Essere Milionario—avrebbe brillato molto di più.
![Carlo Conti, Antonella Clerici e Gerry Scotti a Sanremo 2025](https://crm-img.stcrm.it/images/42426149/2000x/20250212-163844262-2338.jpg)
E come in ogni sitcom di successo, arriva anche la zia d’Italia: Antonella Clerici. Scende le scale e il quadretto è completo. Il Festival del Mulino Bianco può iniziare.
Di eccessi, zero. Di sostanza, pure. Un Festival in punta di piedi, dove nessuno si sbilancia e nessuno esagera. Un tappeto sonoro uniforme, interrotto solo da qualche dichiarazione politica di circostanza. Le uniche scintille arrivano dalla conferenza stampa pomeridiana: l’antifascismo da bar di Conti, che scopre il coraggio politico proprio sul palco dell’Ariston, e le dichiarazioni di voto di Elodie, ormai ridotta a essere un endorsement con le gambe.
Il momento strappalacrime lo regala Cristicchi, con il suo inno alla mamma. Perché la mamma è sempre la mamma e guai a non commuoversi, probabile vinca. Sul palco il superospite è Jovanotti, che—oltre a essere stonatissimo—dopo essersi scassato in bicicletta a Cuba, ha rischiato di scassarsi pure il femore inciampando sui gradini dell’Ariston.
Poi arriva lui, il ponte vivente tra il Festival e la sua storia, Massimo Ranieri. Ranieri non sbaglia un colpo, e su quel palco porta l’unica cosa che ormai Sanremo sembra aver perso: l'autenticità. Un momento di classe pura, impeccabile, che ha il sapore della grande musica italiana. Eppure, il passato è passato, Carletto, suvvia... Basta aggrapparsi alla nostalgia come se fosse l'unico modo di dare peso al Festival. Mia nonna ormai si gasa per Rkomi, forse è ora di voltare pagina per davvero.
Poi c’è Giorgia, che canta sempre da Dio, perché quella voce lì non sbaglia mai. Peccato che, come al solito, si ritrovi tra le mani pezzi che non sono mai all’altezza del suo talento. Una fuoriclasse che continua a giocare in un campionato minore, intrappolata in un repertorio che non le rende giustizia. Il pubblico applaude comunque, perché una voce così non si discute. Ma resta il rimpianto: quando la sentiremo su un brano che davvero la metta al centro?
![L'esizione di Shablo, insieme a Guè, Joshua e Tormento, a Sanremo 2025](https://crm-img.stcrm.it/images/42426132/2000x/20250212-163634433-7434.jpg)
Poi arriva Tony Effe, e per un attimo il Festival prende una piega strana. Un pezzo che non è rap, non è melodia, è una roba a sé. Uno stornello califanesco, che almeno ha il merito di essere qualcosa di originale. Oh, finalmente un po’ di personalità. Non sarà perfetto, ma almeno non sembra uscito dal solito stampino sanremese.
E poi Fedez. Sorpresa.
Nel genere, porta sicuramente il pezzo migliore della serata. Un pezzo che suona fresco, vero, studiato bene. Fedez è tornato Artista. E forse è proprio questo il colpo di scena più grande del Festival: nel mare di banalità e di copie carbone, lui sembra l’unico con qualcosa da dire e il modo giusto per dirlo.
Forse, davvero l’unico degno di vincere.
E il rap? Che Dio ce ne scampi.
Sul palco ci ripropongono una versione West Coast del rap che aveva già rotto le palle negli anni ‘90, figurarsi adesso. Il problema non è solo anagrafico—che già sarebbe un tema—ma di anacronismo musicale: in un’epoca dove l’hip-hop è diventato la colonna sonora della depressione collettiva, questi rispolverano il funkettone con il flow da vecchia scuola, fuori tempo massimo, senza un briciolo di rinnovamento. Se proprio dobbiamo parlare di rap, allora meglio tutta la vita Marracash, che almeno ha la penna, la credibilità e soprattutto sa cos’è l’hip-hop nel 2025.
Quello che si è visto ieri sera, invece, è rap per ragionieri, gente che il ghetto lo ha visto solo nei film di Spike Lee e che nel 2025 gioca ancora a fare i b-boy come se fossimo nel 2002 e andassimo in giro con i pantaloni oversize e le Nike cortez. Male, malissimo.
Altre cose da segnalare? Nulla. Il Dopofestival? Non pervenuto. Di Cattelan, piene le palle. Vediamo stasera… o magari vado a mangiarmi un kebab pensando all’abito di Elodie. Chissà.
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