In data 17 gennaio 2022 MOW ha pubblicato un articolo (a firma della stessa autrice che si accinge a scrivere quanto segue) sulla co-onduttrice chiamata da Amadeus per la prima serata dell’imminente Festival di Sanremo, in partenza il prossimo 1° febbraio: Ornella Muti. Il testo del pezzo, in tono sicuramente sarcastico, si domandava che reazione potesse avere la Rai nel caso in cui fosse venuta a sapere dell’attività che l’attrice porta avanti, insieme alla figlia Naike Rivelli, a supporto della legalizzazione della cannabis, argomento da sempre tabù per il Servizio Pubblico. Tanto più che la sopracitata attività di mamma a figlia non si costituisce, ed è un fatto, solo di post social, ma anche di una vera e propria associazione culturale, l’Ornella Muti Hemp Club, che le due hanno fondato la scorsa estate nel Salento per diffondere l’utilizzo della cannabis a scopo terapeutico. Il dubbio esposto non riguardava in alcun modo possibili perplessità della testata MOW (che, per altro, nell’articolo definisce quello della Muti come “un gesto nobile”). Eppure… Eppure Twitter è impazzito montando, in questo caso sì, una polemica sul nulla contro la cattiva informazione italiana di cui noi saremmo orgogliosi artefici e portabandiera senza vergogna. Sembra davvero di spiegare l’ovvio ma, a quanto pare, tocca farlo. Anzi, tocca pure argomentarlo considerata la dose di insulti rivolti al sito, alle altre testate che hanno ripreso (con citazione) l’indescrezione da noi colta e lanciata, nonché stilettati all’indirizzo della stessa autrice. “Ignobile”, “Fai schifo”, “È disinformazione”, "una presa per il culo dei malati oncologici", cinguettano svariati utenti inferociti. Ebbene, ci sia dato modo di replicare, visto anche l’interessamento (via storie Instagram) della stessa Naike Rivelli. Di più, ci sia anche concesso di dichiarare fin da subito la nostra tesi: nessuno di questi iracondi belligeranti da social ci ha capito un CBD. Qui di seguito, le corpose motivazioni. Finora, ci eravamo limitati a rispondere spargendo cuoricini per il Twitter. Quasi ci veniva da ammirare la fenomenologia di questa polemica, creata dalle stesse menti illuminate che ci accusavano di averne messa in piedi una. Adesso basta.
Andiamo a cominciare: alla Rai la cannabis non piace. Sorpresa, nevvero? Senza andare troppo per il sottile (per esempio, scandagliando la differenza tra THC - iillegale - e CBD - legale! -), i vertici del Servizio Pubblico ritengono l’argomento (quasi) totalmente tabù. Tanto è vero che, durante il periodo della campagna per la raccolta firme sul referendum per la legalizzazione della cannabis, il movimento Meglio Legale (di cui abbiamo pur intervistato la coordinatrice Antonella Soldo), ha indetto una petizione online dall’eloquente titolo-hashtag Quando ne #ParleRai?, lamentando il solido silenzio del servizio pubblico sul tema. Qui una clip, postata il 21 dicembre scorso sui social di Meglio Legale, che rende l’idea delle modalità con cui la Rai sceglierebbe di veicolare, da sempre, “notizie” che riguardano cannabis e dintorni:
C’è altro? Sì. A ben googlare, saltano fuori perfino dichiarazioni ufficiali (e governative) che esplicitano chiaramente, questa volta sì, lo stigma e il tabù che circonda il tema cannabis in casa Rai. Il 21 settembre scorso, per esempio, il (berlusconiano) Presidente della Commissione di Vigilanza Rai Alberto Barachini aveva chiesto alla televisione pubblica di dare adeguata informazione sulla raccolta delle firme per il referendum sulla cannabis legale. La risposta, un granitico niet, arrivò dal Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto (anch’egli di Forza Italia): “L’espressione popolare è sovrana. Personalmente ritengo però che uno Stato non possa sponsorizzare sostanze che, in base alle unanimi risultanze di studi scientifici, possono provocare danni irreparabili alla salute, soprattutto per i più giovani. In un periodo in cui si fa molto spesso riferimento dell’articolo 32 della Costituzione, legalizzare l’uso di stupefacenti è una scelta che merita una riflessione molto, molto attenta”. Per i più pignoli, o a digiuno di comma costituzionali, ricordiamo cosa recita il citato “articolo 32”: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Ne consegue che fare riferimento alla cannabis, sia pure a livello medico e terapeutico, non venga considerato opportuno.
E infatti cosa succede dopo questa presa di posizione? Durante la fase calda del dibattito per la raccolta firme, il Servizio Pubblico “buca” la notizia, ritrovandosi a parlarne invece (per la bellezza di 11 secondi netti) nel corso del Tg1, riferendo ai telespettatori che sì, i sostenitori del referendum sulla cannabis legale sono riusciti a raggiungere il congruo numero di firme per portare la loro proposta in Cassazione. Se tutti i vari passaggi burocratici andranno a buon fine da qui in poi, dunque, si andrebbe al voto in primavera. Fine. Si volta pagina.
Sempre dopo il raggiungimento dell’adeguato numero di firmatari, ovvero quando la notizia era tale e non sarebbe più stato possibile evitare di darne conto, ecco arrivare alle 7.40 di un buon mattino il caldo dibattito sul tema: a prendere parola, in collegamento ledwall, sono Paolo Ramonda (Presidente e Responsabile Generale della Comunità Papa Giovanni XXIII) e Marco Perduca (Presidente referendumcannabis.it). Per come è facile immaginare il telespettatore medio di Rai 1 alle 7 del mattino, il peso delle due figure ricorda un po’ quello tra il gigante Golia e il poro Davide di biblica memoria. Nei fatti, è peggio (qui il link). Il conduttore Marco Frittella modera l’incontro partendo dall’evidente presupposto che uno dei due abbia torto (vi lasciamo immaginare chi), non prendendo in considerazione che l’altro “contendente” porti come argomentazioni “i bambini che sniffano colla nei tombini in Romania”, “gli incidenti stradali dovuti alla guida in stato di ebbrezza” (qui si sarebbe potuto timidamente far notare che l’alcol in Italia sia ben legale, anzi, addirittura monopolio di Stato mentre la cannabis non proprio) e “i giovani, lo sballo”. Frittella chiude il collegamento asserendo che insomma “ognuno ha la sua opinione”, “le due posizioni sono difficilmente conciliabili” e andiamo in pace verso la pubblicità.
Ora, non stiamo dicendo che questi due episodi testimonino per intero il modo in cui la Rai ha scelto di informare i cittadini sul referendum per la legalizzazione della cannabis. Ma già il fatto che esistano, insieme - è pur vero - a qualche lancio sull’uso terapeutico di tale sostanza, e che siano tra i primi risultati di ricerca Google digitando “Rai cannabis” potrebbe dare l’impressione di dirla lunga. E ci stiamo riferendo solo a esempi recentissimi, non alla preistoria del Servizio Pubblico. A maggior ragione, quando siamo venuti a sapere (per carità, con notevole ritardo rispetto al lancio della news che risaliva a questa estate) di quanto la Muti si stesse spendendo a favore della legalizzazione, ci è venuto il sospetto che la Rai potesse non vedere di buon occhio tale attività, l’Ornella Muti Hemp Club compreso. Che scriteriati.
E adesso veniamo, nello specifico, proprio a questo Hemp Club fondato dall’attrice e dalla figlia Naike nel Salento. Partiamo subito dalla comunicazione social: esiste un video in cui le due attraversano sterminate piantagioni (di CBD? di THC? Dove si trovano queste coltivazioni? Sono state riprodotte tramite sapiente CGI?) che difficilmente un utente qualsiasi non ricondurrebbe al centro stesso. Per esempio, per il fatto che la clip in questione (e varie immagini a essa collegate) sia piazzata in evidenza sul sito dell’associazione culturale “di mera divulgazione”. “Noi mettiamo in contatto i pazienti a cui la cannabis è stata prescritta dal medico con le farmacie, mica la vendiamo!”, dice la Rivelli Jr irridendo Roberto D’Agostino di Dagospia (che si è semplicemente limitato a dare spazio a una “notizia” lanciata da Mow). A voler essere pignoli, questo significa che nemmeno le protagoniste della vicenda, insieme al loro stuolo di inferociti follower, abbiano capito con chi arrabbiarsi. Non stupisce, dunque, che abbiano registrato difficoltà a comprendere “come mai” si dovessero eventualmente alterare. Eppure “basta leggere”, “basta informarsi”, ci ricordano su Twitter. È vero: sarebbe bastato dare una letta veloce al nostro articolo, interamente ripreso da Dagospia, per vedere la citazione (prima riga, eh? Manco in fondo) alla testata Mow e al nome dell’infingarda autrice del pezzo. Chi di pignoleria ferisce…
Dunque, vedendo Muti e figlia girovagare per sterminate piantagioni di canapa (lo chiediamo di nuovo: dove stanno? Fanno parte del centro a conduzione famigliare?) nessuno avrebbe potuto o dovuto pensare che l’attività dell’Ornella Muti Hemp Club potesse riguardare anche la coltivazione se non la somministrazione (dietro ricetta medica, per carità)? Eppure, nei risicatissimi punti in home page si parla di “coltivatori tesserati”, di “vendita di prodotti green” (nel senso di “vegani”? Possibile. Ma il termine resta molto vago), di “allestire una sede fisica dell’associazione munita di una sala terapia, all’interno della quale i pazienti, in possesso di prescrizione medica, possano eseguire i trattamenti”. Cosa si intende, dunque, per “eseguire i trattamenti”? Che, con ogni evidenza, qualcuno un giorno lì dentro possa o potrà inalare, vaporizzare, fumare, assumere in ogni senso fattibile cannabis. Si parla di CBD? Di THC? Non è specificato. Come ci sembra risibile che l’associazione nasca per indirizzare pazienti verso le farmacie che vendono cannabis terapeutica (teoricamente tutte, dal 2007 e per legge) per poi invitarli a consumarla all’interno della sede della famiglia Muti. Un giro dell’oca piuttosto contorto, soprattutto considerando che si rivolge (anche) a malati di Sla o in chemioterapia a cui, si suppone, verrebbe richiesto uno spreco di energie notevolissimo per ottenere quanto prescritto e poterlo finalmente assumere. Il quadro illustrato dal sito è, dunque, confuso (o quantomeno vago).
Se decidiamo, come abbiamo deciso, di non farcelo bastare, ecco arrivare Google in nostro ausilio. Cercando “The Hemp Club” troviamo risultati interessanti: si tratta, infatti, dello stesso nome di un’associazione molto diffusa in Spagna (seppur soggetta a limitazioni e controlli pressanti dal punto di vista legale) che dà la possibilità di coltivare e produrre cannabis (sia THC che CBD) per farla avere a chiunque si presenti in uno di questi club in possesso di prescrizione medica. Non solo, “The Hemp Club”, apprendiamo, è arrivato anche in Italia (a Milano, zona Affori), dove l’associazione, oltre a opera di divulgazione e sensibilizzazione, offre anche opportunità di frequentare corsi di cucina (nello specifico, di pasticceria come abbiamo riportato nell’articolo originale) per sfornare torte e muffin dal sapore “green”. Gli scopi, anche qui, sono sempre e comunque terapeutici. Sballo, giovani e fattanze varie restano fuori dai cancelli del centro. Stesso nome, medesime finalità: mera omonimia? Sul sito di Ornella Muti The Hemp Club oggettivamente non si trovano abbastanza informazioni per poter disambiguare in modo chiaro e definitivo. Magari, nel caso in cui il club delle Rivelli non derivi da quello dei cugini spagnoli, potrebbe valer la pena di dirlo espressamente. Come anche di non improntare la comunicazione dell’associazione su immagini che, lo ribadiamo, vedono mamma e figlia sgambettare beate in mezzo a una piantagione dalle riconoscibilissime foglie. Foto promozionali di una realtà che non esiste? Bene, esistono invece disclaimer ad hoc per avvertire gli utenti.
Sia come sia, nessuno da queste parti crede che quanto messo in piedi dalla Muti sia deprecabile (anzi!), nascendo pure (come ancora una volta riportato dall’articolo originale) dalla sofferenza che l’attrice ha visto attraversare alla mamma Ilse durante i vari trattamenti chemioterapici a cui la donna è stata sottoposta per poi spegnersi all’età di 91 anni. Si pensa solo - e a ragion veduta considerato quanto l’argomento cannabis sia osteggiato dalla Rai - che al Servizio Pubblico possa non far piacere che una co-conduttrice del Festivàl si stia battendo così orgogliosamente (nonché legittimamente) per la legalizzazione di tale sostanza. Senza contare che la figlia Naike ha piazzato un bel rametto dalla riconoscibilissima foglia attorno alla tv da cui stava seguendo l’annuncio di Amadeus rispetto ai cinque nomi delle presentatrici del prossimo Sanremo, tra cui appunto la sua celebre madre. Il video è su Instagram. Anche un non vedente si accorgerebbe come e quanto questo tipo di comunicazione faccia a cazzotti con quella portata avanti (almeno finora) da mamma Rai. Ma se qualcuno riporta tale (potenziale) cortocircuito, è nato analfabeta, ignorante, incapace di ragionare scevro da pregiudizi.
Se siete arrivati fino qui, spossati quanto chi scrive - questo ve lo assicuriamo -, grazie. Spiegare l’ovvio è un duro lavoro, ma qualcuno deve pur farlo a quanto pare. L’abbiamo fatta troppo lunga? Magari sì. Ma già che ci siete, andate pure a gustarvi la brevissima trafila di insulti e accuse arrivati al nostro indirizzo nelle ultime ore. Pareva davvero il caso di fare il punto. E soprattutto di mettercene uno. Ora vedremo cosa accadrà a Sanremo (di nuovo, nessuno auspica o si aspetta un esonero della Muti, per cortesia!). Buon Festival a tutti, fumatori e non!