Un gruppo di attivisti pro-Palestina ha rotto il lucchetto di uno dei cancelli del Lingotto, dove si tiene il Salone del Libro di Torino e hanno provato a entrare per impedire a Nathan Greppi di presentare il suo libro, La cultura dell’odio (Lindau, 2025). La polarizzazione e l’ideologia hanno spinto dei ragazzi a tentare di sfondare la cordata delle forze dell’ordine al grido di “Fuori i sionisti dal Salone del libro”; l’unico risultato è stato dimostrare che il titolo del libro è quanto mai azzeccato. La prima domanda la faccio a chi era dentro a stringere mani e cercare di vendere qualche libro ai passanti. Gli editori e gli scrittori, che conosco, che sono d’accordo con i movimenti pro-Pal, gli stessi che marchiano con adesivi antisemiti i libri nelle librerie, gli stessi che si augurano una Palestina libera “dal fiume al mare” (inneggiando pubblicamente alla distruzione di Israele), gli stessi che fanno negazionismo sulla Brigata ebraica durante la Seconda Guerra Mondiale e gli stessi che definiscono il 7 ottobre un eroico atto della resistenza palestinese. Questi amici cosa pensano dei ragazzi fuori che hanno cercato di superare la sicurezza per impedire la presentazione di un libro? Sono d’accordo? Li difendono? Perché non l’hanno fermata loro la presentazione? Per tenere separata morale e affari? Oppure credete sia una mossa da deficienti, come effettivamente è stata?
Seconda questione. Nelle piazze ci si scontra per dimostrare che la questura non ha il potere di controllare una città e che la politica non può silenziare il dissenso. In questo caso l’obiettivo qual era invece? Intimidire una singola persona, magari accompagnarla fuori dal Salone, magari assaltare il banchetto Lindau (che mi auguro stia vendendo tanto, tantissimo, soprattutto i libri di Greppi, Giulio Meotti, Il sabato nero, e Carlo Panella, Il libro nero di Hamas), magari impedirgli di parlare, bloccandolo in mezzo a dalle persone con l’adrenalina a mille e la voglia di urlare. La differenza tra una protesta in strada e la volontà di piombare in un evento culturale per zittire una specifica persona è evidente, no? È, come si è già detto e scritto, la premessa per il terrorismo politico, per i processi sommari a singoli individui, etichettati, schedati e puniti. Forse non si passerà da questo genere di interdizione all’omicidio e proprio per questo stiamo parlando di un terrorismo (chiamiamolo terrorismo woke, a basso impatto) più subdolo, perché finisce per essere accettato. È quello che è successo – lo spiega benissimo in Olocausti Gilles Kepel (cacciato dall’École normale supérieure in Francia, dove teneva un corso sul Medio Oriente, che ha studiato per cinquant’anni) – dopo il pogrom ebraico di Hamas, quando l’opinione pubblica ha iniziato a cancellare completamente i 1140 omicidi di israeliani, casuali e all’alba, per concentrarsi, fin dal giorno successivo, sulla risposta israeliana.

Una vittoria, in ogni caso, l’hanno ottenuta. La questura, poco prima dell’inizio della protesta, ha chiesto al presidente della Comunità ebraica torinese Dario Disegni e allo storico Claudio Vercelli (autore di libri su Israele e il Conflitto per Laterza e Giuntina) di annullare il loro dibattitto. La cultura dell’odio sta vincendo ed è evidente che abbia come obiettivo polemico non solo le istituzioni politiche e le multinazionali, colpevoli di essere complici del “genocidio palestinese” (termine sfruttato da subito, a partire dalla denuncia del Sud Africa, per alimentare l’odio verso Israele), ma anche il mondo culturale, che va ora riplasmato a immagine e somiglianza dell’ideologia. Il nuovo mito è Ilan Pappé, storico dichiaratamente attivista e militante, convinto – lo ha detto lui – che i suoi studenti attivisti scrivano tesi migliori di chi vorrebbe restare neutrale. Una delle più importanti università francesi manda via uno degli esperti più tradotti del Paese. Poi i campus a Harvard, Columbia. La Sapienza a Roma ospita la presentazione del libro del terrorista e capo militare di Hamas Sinwar. La Bbc promuove un documentario su Gaza dal punto di vista dei bambini, senza dire che il bambino protagonista era il figlio di un alto funzionario di Hamas. Qualsiasi istituzione e i giornali riprendono i dati sui morti forniti dal Ministero della salute di Gaza gestito da Hamas (in effetti gli unici disponibili, anche per colpa di Israele), che non distingue tra civili e terroristi e probabilmente ha manipolato, molto più che in passato, l’elenco reso pubblico (secondo la Henry Jackson Society avrebbero segnato come donne degli uomini, avrebbero aggiunto morti per cause naturali, non avrebbero distinto tra morti per colpa di Israele e morti per colpa di Hamas o incidenti a Gaza e molte altre anomalie). Se volete avere una panoramica più completa leggete proprio La cultura dell’odio di Nathan Greppi, che ieri ha presentato un libro necessario.
