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Se la Gen Z vuol capire perché è messa così (male?) DEVE ASCOLTARE GLI OFFLAGA DISCO PAX! Cosa ci ha lasciato il concerto? Il valore del collettivo, del tempo e delle parole dei genitori...

  • di Rebecca Anice Rebecca Anice

  • Foto di: Instagram

9 agosto 2025

Se la Gen Z vuol capire perché è messa così (male?) DEVE ASCOLTARE GLI OFFLAGA DISCO PAX! Cosa ci ha lasciato il concerto? Il valore del collettivo, del tempo e delle parole dei genitori...
Cosa succede se una Gen Z assiste a un concerto degli Offlaga Disco Pax, band simbolo della musica indie italiana anni 2000? Che scatta un viaggio nella memoria collettiva, dove nostalgia e riflessioni sulla velocità del mondo moderno si intrecciano. Il loro sound ed i testi evocativi di una società ormai scomparsa, diventano un’ancora emotiva che sfida le generazioni ricordandoci che il passato è sempre vivo, soprattutto quando lo si ascolta con attenzione

Foto di: Instagram

di Rebecca Anice Rebecca Anice

I miei genitori si sono resi colpevoli di molte azioni nella loro vita. Tra queste, l’avermi svezzata a suon di musica italiana “inascoltabile e profondamente emiliana”. Un tentativo inconscio, da parte loro che lo sapevano già, per farmi scegliere e capire da che parte stare. Ai tempi, la mia educazione rosso- centrica venne celebrata con una gita di famiglia a MiAmi Festival, in tempi ancora non sospetti, dove vidi il mio primo ed unico concerto degli Offlaga Disco Pax. Fino allo scorso 24 luglio 2025. Mi trovo ad Ome, un piccolo paesino della provincia di Brescia, è appena calato il buio ed una voce femminile registrata invita ad avvicinarsi al palco, ripetendo incessantemente “Disco Pax”. Gli Offlaga sono in tre, si accomodano su sgabelli pericolanti e dietro strumenti che hanno forse il doppio degli anni che ho io. Sin dai primi momenti si percepisce l’estrema premura con cui trattano quel momento. Dopo l’uscita di Socialismo Tascabile ormai vent’anni fa, un tour cominciato a marzo, fermatosi momentaneamente a ridosso del sobrio 25 aprile, e poi ripartito in estate, ciò che mi aspetto di vedere sul palco è esattamente questo: cura, rispetto, precisione. Ma anche stanchezza, nostalgia.

La casa popolare dove è cresciuto Max Collini a Reggio Emilia
La casa popolare dove è cresciuto Max Collini a Reggio Emilia foto Facebook

Aprono il set con Kappler, uno dei brani più famosi e più universali, perché la dinamica del professore-sergente e dell’alunno “bravo ma non si applica” è capace di trascendere il tempo. Il pubblico urla nei momenti giusti, vedo persone di tutte le età, ben distanziate le une dalle altre, perché lasciar fluire le emozioni che questo concerto ti porta ad esperire, richiede molto spazio. Poi Cinnamon, un brano che dopo vent’anni è ancora capace di descrivere il paese reale che cambia. Lo fa in modo semiserio, quasi grottesco nella sua demenzialità, parlando di una società che procede spinta da forti desideri, che ricerca forti stimoli, raccoglie forti delusioni e si conforta con cicche dal gusto fortemente discutibile. Arriva un momento estremamente denso, lo si percepisce fin da sotto il palco. Le costole mi iniziano a vibrare di un suono familiare, un inno quasi ancestrale che ha accompagnato migliaia di persone come me, prima di me: Atmosphere dei Joy Division. Quel brano perfetto da utilizzare sul finale di una pellicola cinematografica, qui sembra voler chiudere un cerchio. Nessun cantato, nessuna parola fino alle ultime note, sul finale Max Collini saluta Enrico Fontanelli. Lo fa come si saluterebbe un amico che si sta allontanando di spalle, stretto in un giubbino e veloce nei suoi stivali, senza che dal cielo piova. C’è solo un’aria fresca che lo circonda e ne sbiadisce la sagoma, pian piano che questa scompare nel buio illuminato di lampioni. Poi una strana storia d’amore rivoluzionaria, Khmer rossa, che nasconde dentro di sé quel potenziale che aveva Mi Ami dei CCCP. Eppure non sortisce lo stesso effetto, anche se fa sorridere tutti. Si capisce sin dai primi attimi che quella canzone è stata scritta dalla mano decisa di un uomo ormai lontano dall’adolescenza, che è diventato (almeno in apparenza) padrone della propria lingua e delle proprie budella, deluso sia dall’amore, sia dalla politica. Restando inspiegabilmente leggero, come si addice ad un uomo.

Gli Offlaga Disco Pax
Gli Offlaga Disco Pax foto Facebook

Parlo da Solo, Piccola Storia Ultras e Tatranky, brani che per gap generazionale e culturale fatico a comprendere fino in fondo, fatta eccezione per Tono Metallico Standard, che invece è capace di narrare un fastidio sottopelle che anche io, appartenente alla Generazione Z, conosco bene. Guardando il palco e le persone che lo dominano, ho l’assoluta certezza che non parliamo la stessa lingua. Ma gli riconosco che, nel loro continuare questa narrazione di tempi che io non ho vissuto, gli manca quella tendenza avannotta di ostentare la propria conoscenza del mondo. Quello sguardo che ti scava nelle viscere a suon di “io so tutto, tu non sai nulla”. È proprio in questo momento che si fa viva in me la voglia di cambiare posizione e dirigermi alla destra del palco, spostando lo sguardo e muovendo le gambe. Ecco una cosa che gli Offlaga e gli appartenenti alla loro generazione non possono capire: l’abbassamento della soglia dell’attenzione. È un’impresa ardua per noi giovincelli ascoltare un intero concerto degli Offlaga, praticamente impossibile farlo senza saltuarie pause. Ma capisco che per loro il metro di misura del tempo e delle parole, è diverso dal mio. Forse più dignitoso. In un mondo che si è abituato ad andare troppo veloce, gli Offlaga sono anti-velocità. Un’ironica certezza all’interno di una realtà in cui le cose lente hanno la forma delle cose che ti salvano. Io in particolare vengo salvata dal suono di Allarme dei CCCP, che questa sera ha l’accento più emiliano di sempre, e Dove ho messo la Golf?, che termina con un monito: compagni e compagne, attenti alle vostre patenti. E volendo vedere l’emotività come un altro modo di sottrarsi ai meccanismi brutali di questa società, mi commuovo su Sensibile, che non smetterà mai di essere un pugno nello stomaco. Sulle note di Onomastica, che appare interminabile, percepisco il suono di alcune parole ben precise, diverse da quelle che ho sempre sentito in cuffia. È in questo momento che capisco che cosa hanno voluto trasmettermi i miei genitori in tutti questi anni: che ci sono molti modi per affermare le proprie posizioni, l’appartenenza ad un qualcosa di definito, per rendere onore alla parte in cui si è scelto di stare. E che il modo migliore è quello collettivo, fare come stanno facendo gli Offlaga in questo momento: pronunciare i nomi e i cognomi di tutti coloro che con mani e fegato hanno contribuito a costruire Diluvio Festival. Il concerto termina con Robespierre, la loro punta di diamante, il brano che li ha consacrati come padri di non si capisce bene quale genere o tendenza. Penso che forse l’essere padri non richiede per forza il riconoscimento dell’identità dei figli. Questo pezzo, così come la loro intera discografia, è un diario popolare di fatti e misfatti che non comprendo, di una generazione che, dicono, ci abbia rovinato. Lo ha fatto, continua a farlo: perché gli animali feriti mordono, ma non per questo sono cattivi.

Gli Offlaga Disco Pax in concerto
Gli Offlaga Disco Pax in concerto foto Monia Pavoni (Facebook)

Quando tutto sfuma e io riprendo in mano le redini della mia esistenza al di fuori di questo concerto, mi guardo intorno e vedo le sagome di milioni di alberi silenziosi, uno sfondo naturale e bucolico che mi fa sorridere. È divertente pensare che qui ci abbia appena finito di suonare un gruppo che sa di acciaio, ferro battuto, grigiore di fabbrica e di città, che racconta di una pianura spietata e velenosa, di nebbia ed erba che cresce malsana, piccole aziende, monumenti e vie dedicate a dittatori stranieri. Gli Offlaga sono come una fotografia di qualcosa che non ho vissuto, qualcosa di cui ho bisogno di verificare l’autenticità chiedendo a chi è venuto prima di me. Perché chi c’era prima, capisce perfettamente. Non perché tutte quelle cose le abbia davvero vissute, semplicemente perché era lì quando accadevano. Ecco, io non c’ero, ma se c’erano i miei genitori, è come se ci fossi stata anche io. Ed è un po’ come succede con gli Offlaga e ad Enrico Fontanelli, qualcuno che è andato, che non è più fisicamente e materialmente qui, ma è come se ci fosse. Onnipresente nelle note che risuonano perché vivo nella memoria di chi condivideva la vita con lui. La nostra parte è questa, alla fine. Quella di chi non dimentica il suono dei passi delle vecchie scarpe, di chi ne sente ancora il fastidio e insieme la confortevolezza nel calzarle. La parte di chi quella sera su quel palco, di persone ne ha viste quattro.

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