Qualche settimana fa, durante una diretta sul mio canale Youtube, con il mio amico Ray Banhoff ci siamo messi a parlare di libri. È una cosa che facciamo spesso, con il mio amico Ray Banhoff, parlare di libri, e anche quella volta non faceva eccezione. D’un tratto me ne esco con un “hai letto questo?” – “questo cosa” - mi fa lui “questo libro; questo qui” - e tiro fuori la mia copia de La stanza da bagno di Jean-Philippe Touissant, un libro che ho letteralmente divorato, con su in copertina – indovinate un po’ – una vasca da bagno (credevate una stanza, ma come si fa a raffigurare una stanza), una vasca da bagno su sfondo bianco, una copertina delle splendide edizioni Amos. La stanza da bagno – dicevo – è un libro di questo scrittore francese, Touissant, di cui prima di allora avevo letto L’urgenza e la pazienza, altro grande libro, libro favoloso, in cui Touissant parla dello scrivere e lo caratterizza proprio come un’eterna tensione tra due poli, quello dell’urgenza – alla cui scuola sono sempre stato affezionato – e quello della pazienza, virtù che non mi ha mai fatto troppa compagnia durante gli anni della giovinezza, e che continua a farmi poco compagnia anche adesso. Quello che voglio dire – andando ben oltre Touissant, cioè prima di lui, e male – è che io nella vita ho sempre avuto una certa fretta, una fretta bastarda, anzi – per utilizzare un gergo più forbito – una fretta fottuta, espressione che ricorda neanche troppo di lontano le locuzioni americane – “a f*cked urgency”, direbbero loro, che è una fretta fottu*a nel senso di una fretta che si lascia fot*ere, o che si è lasciata fot*ere, una fretta che non fai neanche in tempo a realizzarla che – bum – ti ha bell’e che preso (si dirà così?), ti fot*e l’anima e insieme ti fot*e anche il cervello, ecco, quindi quando ho scoperto insieme a Touissant – anzi prima di lui, che poi non è altro che uno scoprire male dopo lui – che esiste al mondo anche la pazienza, ecco in quel momento mi sono fermato a pensare, e ho pensato che avrei proprio voluto sperimentare una volta nella vita questa pazienza. La stanza da bagno è un romanzo che ha per protagonista uno che ha un’immensa pazienza, una pazienza infinita, perché passa tutte le sue giornate letteralmente a fare niente.
Ora, questo tale, questo personaggio incredibile, ha una fidanzata il cui nome trovo veramente evocativo, uno di quei nomi belli, che a me non sono mai venuti in mente per nessun libro che ho scritto (ho una grande difficoltà con la narrativa, e credo che questa difficoltà dipenda dai nomi.) Il nome della fidanzata è Edmondsson, ecco vedete che è un bel nome, è un nome che faccio quasi fatica a pronunciare, un nome svedese, nordico, appiccicato addosso a una ragazza che però abita a Parigi, che qualcosa di nordico, di “gallico”, ce l’ha, e sta appunto insieme a un tizio che all’improvviso decide di fare una cosa inedita per un romanzo, e cioè di rinchiudersi dentro a una stanza da bagno. E il libro difatti inizia proprio così, con lui che attacca a dire “Quando ho cominciato a trascorrere i miei pomeriggi nella stanza da bagno, non era mia intenzione rimanerci”. Non era sua intenzione, capite? Uno decide di chiudersi in una stanza da bagno ma non ha intenzione di rimanerci, semplicemente geniale. È capitato anche a me tante volte di chiudermi in una stanza da bagno, questo soprattutto da bambino, quando sognavo letteralmente di vivere al bagno, o per dirla male di vivere al cesso, con una bella televisione magari, montata proprio lì accanto alla doccia (al tempo non esistevano telefoni smart o iPad, altrimenti sai che libidine), il mio fidato sgabellino (ho sempre letto tanto al cesso, fino a farmi bloccare quasi del tutto la circolazione delle gambe), e qualche cosa da mettere sotto ai denti, magari portata dalla mamma (che spesso mi intimava a gran voce di uscire, quando si faceva l’ora). Ho sempre usufruito anche della vasca da bagno, anche lì passavo ore a leggere, facevo penzolare il braccio fuori per tenere il libro fino a che non si scatenava l’effetto arto morto, con il braccio che non sembrava neanche più parte del corpo, un gelido ramo secco pronto ad essere tagliato; credo che nel caso non avrebbe emesso neanche del sangue. Ma torniamo al romanzo di Touissant, il tipo del romanzo come dicevamo all’improvviso decide di chiudersi al bagno, e la fidanzata, Edmonsson lo trova più sereno, inizia a scherzare insieme a lui, le capita di ridere. Poi qualche giorno dopo avverte la madre, che devo dire fa una cosa del tutto bizzarra: gli porta dei dolci. “La mamma mi portò dei dolci” – capite la poesia? Immaginatevi la scena, Edmondsson chiama allarmata la madre del protagonista “guardi che suo figlio ha deciso di chiudersi al cesso”, cosi, di botto, dando realizzazione a un sogno che forse hanno coltivato tutti e che di sicuro ho coltivato io, e la madre per tutta risposta, anziché allarmarsi, preoccuparsi delle sue condizioni di salute, accorre al suo capezzale, si siede sul bidet e dispone i pasticcini su di un piatto fondo. Certo, Touissant ci dice che era preoccupata, chiede al protagonista come sta, ma il punto fondamentale a mio avviso è che non appena entrata si mette a disporre dei dolci su di un piattino sedendosi sul bidet. Con quel gesto è come se prendesse parte alla follia del figlio, come se lui la tirasse dentro in quel suo sogno assurdo che poi è anche il mio sogno, e chi se ne frega del resto. Il protagonista, però, esce presto dalla stanza, e questa cosa mi ha stupito. Come minimo da un romanzo intitolato La stanza da bagno mi aspettavo che il tizio passasse tutto il resto del libro in bagno, se non addirittura proprio nella vasca di suddetto bagno. Il fatto però che ne esca subito – dopo averci fatto un po’ l’amore, mangiato i dolcetti della mamma, aver ospitato qualcuno a cui suggerire quale asciugamano pulito adoperare per asciugarsi la testa – mi ha fatto pensare. Vuoi vedere – mi sono detto – che la stanza da bagno non è un luogo fisico ma metafisico, un luogo associato a un’idea, anzi meglio a uno stato d’animo, un luogo non circoscrivibile a nessuna topografica conosciuta, a nessun sito specifico e neanche a una città (il romanzo all’inizio è ambientato a Parigi ma non è di Parigi che si parla). Ecco, l’idea che me ne sono fatto io è che la stanza da bagno sia il simbolo del non-luogo per eccellenza, ma non nel senso di Marc Augé, un non-luogo nel suo senso “animoso”, per così dire (che termine brutto, che modo osceno di esprimersi), di tutto ciò che ci portiamo dentro vivendo nei luoghi, visitando le città, accompagnandoci a qualcuno. Il non-luogo tratteggiato da Touissant è quello spazio che vive tra gli interstizi del mondo abitato e di quello interiore, è la condizione di possibilità dell’abitare in quanto tale. Questo non luogo è trasferibile ovunque, ci accompagna sempre, e non a caso accompagna il protagonista anche nella seconda parte del libro, che si svolge – sorprendentemente – a Venezia. Voi immaginatevi che matto, questo tizio che all’inizio del libro decide di chiudersi nella stanza da bagno, che all’improvviso prende e parte senza avvertire nessuno, e dove va? Ovviamente a Venezia, che da sempre ha così tanto fascino sugli scrittori e sui disgraziati.
Ed ecco qui la cosa veramente favolosa di questo romanzo. La prima cosa che fa il protagonista una volta arrivato a Venezia è prenotare una stanza d’albergo per poi chiudersi al suo interno, per fare esattamente le stesse cose che faceva nella sua stanza da bagno a Parigi. La stanza da bagno si è tramutata in stanza d’albergo ma è rimasta in qualche modo stanza da bagno, l’albergo e il bagno condividono quel sapore tipico dei non-luoghi, che si fanno popolare così bene e così presto, che si impregnano del profumo di noi, delle nostre usanze, per poi venire continuamente lavati e rinnovati, detersi, mi pare la parola giusta, detersi di tutta la nostra essenzialità che pure gli ha abitati per un tempo così lungo (o così breve, dipende dai punti di vista). Il protagonista ora ha una sfida, colonizzare la stanza d’albergo, mentre prima era colonizzare la stanza da bagno. Sono due sfide così diverse eppure così vicine, alla fine si tratta sempre di colonizzare, di imprimere all’ambiente il proprio odore, di rendere tutti i luoghi come quel non-luogo che noi siamo, di ibridare il mondo con il non-luogo, o di fare del non-luogo il mondo. Ho trovato meraviglioso quindi che il primo luogo dove il tipo decide di andare una volta lasciato l’albergo non è piazza San Marco, come deve fare qualsiasi buon turista da manuale, ma la Standa, che cosa meravigliosa parlare di Venezia attraverso la Standa, e quindi parlare della vita attraverso i nostri bisogni primari, quelli che di solito non finiscono in un romanzo – il bisogno di mettere su un pigiama, di comprare spazzolino e dentifricio, di portarsi in albergo un giochino con le freccette per ammazzare il tempo, e soprattutto il bisogno di descrivere minuziosamente com’era fatto questo giochino per le freccette, il tutto sapendo che fuori da quella stanza d’albergo c’è Venezia, o che fuori da quella stanza da bagno apparecchiata con le leccornie portate dalla mamma preoccupata e pensosa, ma seduta sul bidet, c’è Parigi, ecco credo sia questo il segreto de La stanza da bagno, il motivo per cui funziona così bene, ovvero il fatto che chi l’ha scritto ha deciso di mettere da parte le cose importanti lasciandole sullo sfondo, e rendere protagoniste le cose davvero poco importanti, quelle che di solito non appassionerebbero il lettore; e invece alla fine si scopre che appassionano, si scopre che una buona scrittura non passa solo attraverso una storia (per quello ci sono i romanzi gialli da aereoporto) ma passa attraverso un modo di raccontare la vita, che è anche un modo di viverla nella sua insensatezza, nella sua eccentricità, un modo di mettere al centro una stanza mentre il mondo gira tutto intorno, e fregarsene di questo mondo che gira, non curarsi del fatto che là fuori c’é il Louvre, o Piazza San Marco, fregarsene di quello che il manuale del buon turista dice di fare, e immaginarsi invece a colloquio con un amico e di fronte alla domanda scandalizzata “ma come, sei stato a Venezia e non hai visto Piazza San Marco” rispondere “no, perché sono stato troppo impegnato a non fare niente”, che è poi un altro modo, ormai dimenticato, di vivere la città, il non fare niente mentre tutto intorno il resto gira, ma è quel niente che reputiamo davvero importante, che è importante solo per noi, e non per il recensore delle guide turistiche o per il nostro amico giramondo. È anche un modo di visitare posti che piacciono a me, che ho sempre ritenuto per esempio i musei di una noia mortale. Mente leggevo il libro sono stato colto da una passione sfrenata per Edmondsson. Me la immagino come una donna attraente, dall’aria sfrenata e sbarazzina. In una scena del romanzo lei chiede al protagonista di fare l'amore, e questa è la sua reazione: “Richiusi con calma il libro, lasciando il dito tra le pagine per tenere il segno. Edmondsson rideva, saltava a piedi giunti. Si sbottonò la camicetta”. Che personaggio – ho pensato mentre leggevo questa scena – che donna. Ecco perché mi è dispiaciuto molto quando alla fine del romanzo entra un po’ in crisi con il protagonista. L'errore più grande del tizio per me è stato lasciarsi sfuggire una come Edmondsson. Questo errore è coinciso con l’emergere di una forte sinusite, che costringe il protagonista ad andare in ospedale, impiantando di nuovo una sua piccola stanza del nulla anche all'interno di quel luogo di malattia, di quel posto così distante dai non-luoghi che abitano nella sua testa. Non credo sia necessario raccontare di più. Il romanzo è già breve, e non vorrei rovinarvi tutte le sorprese. Ritengo solo doveroso lasciarvi con il finale, uno dei più bei finali che mi sia mai capitato di leggere. Semplice, pulito, leggero, un finale che racchiude tutto un mondo: “Il giorno dopo, uscivo dalla stanza da bagno”. Io, in questo momento, sto uscendo dalla mia.