Nella scena rap italiana questa è la settimana di Shiva, che pubblica l’album Milano Angels dopo una lunga attesa: l’uscita era stata rimandata in seguito alla condanna a sei anni e mezzo di carcere per tentato omicidio, un crimine da cui Shiva si dichiara innocente. O meglio, non nega di aver sparato, ma dice di averlo fatto per difendersi. La vicenda è ormai molto nota: l’11 luglio 2023 due personaggi dalle intenzioni probabilmente non pacifiche (tra cui un lottatore di Mma) fanno irruzione nel cortile della sua etichetta, la Milano Ovest, probabilmente con l’intenzione di fare una spedizione punitiva. Shiva impugna una pistola e spara. Mirando verso il basso e con l’intenzione di cacciarli, sostiene lui; ad altezza d’uomo e per uccidere, decreta il giudice. Ecco perché l’accusa si è concretizzata in tentato omicidio e non in lesioni gravi, anche se entrambe le vittime hanno riportato solo ferite non gravi alle gambe. Si ipotizza che i due siano legati a una crew “rivale” di San Siro, la Seven 7oo, e in particolare al rapper Rondodasosa, ma non si è mai capito esattamente cosa sia successo, anche perché perfino i feriti hanno rifiutato di collaborare con le indagini. Neppure la pistola è stata mai ritrovata. Nel frattempo Shiva è stato arrestato, ha fatto alcuni mesi di carcere in attesa del processo – perdendo anche la nascita del figlio che aspettava dalla compagna – e ora sta scontando la sua condanna ai domiciliari, dove prepara l’appello insieme ai suoi avvocati e dove a quanto pare ha registrato questo nuovo album.
Posto il fatto che se ha sbagliato deve pagare (e Shiva ha inequivocabilmente sbagliato, perché non si può sparare con tanta leggerezza: il punto che dovranno stabilire i giudici d’appello, semmai è quanto ha sbagliato, ovvero se avesse intenzione di uccidere o meno), per l’ennesima volta l’opinione pubblica ha avuto l’occasione di associare il rap a comportamenti criminali e devianti. Proviamo un attimo ad astrarci dalla vicenda in questione, e a guardare ai massimi sistemi. Una delle cose che più ha dato fastidio di questa faccenda è la solidarietà che la scena rap ha mostrato nei confronti di Shiva, simile a quella ricevuta in passato da Baby Gang. Ma si tratta di solidarietà umana e non di innocentismo a tutti i costi: in un caso come questo è difficile simpatizzare con le vittime, che avevano fatto irruzione nel cortile dell’etichetta con pessime intenzioni, ed è facile invece mettersi nei panni di Shiva, un ragazzo di 24 anni in attesa del suo primo figlio, che vede due energumeni arrivare da lui probabilmente per spaccargli la faccia e reagisce in preda al panico. Ha fatto una scelta intelligente e lungimirante? No, e su questo siamo tutti d’accordo. I rapper italiani dovrebbero fare una riflessione sulle persone di cui si circondano, e possibilmente delegare i loro servizi di security a professionisti addestrati a farlo, anziché fare da sé? Sicuramente. Sarebbe il caso che sottolineassero più spesso, anche a beneficio dei fan e degli artisti emergenti, che la violenza non è mai una soluzione e che ciò che raccontano nei brani non dovrebbe mai tradursi in realtà? Forse sì. Dovremmo lasciare che i bambini ascoltino le sue canzoni senza supervisione e contestualizzazione? Questa è una scelta che spetta ai genitori, perché gli adulti siamo noi, e non possiamo pensare di delegare l’educazione dei nostri figli agli artisti che ascoltano.
Ma il punto, qui, è un altro: ovvero che i rapper come Shiva (quelli che effettivamente hanno la fedina penale sporca e/o sono in attesa di giudizio per reati gravi) sono una piccola minoranza. La stragrande maggioranza dei rapper italiani non hanno mai avuto a che fare con la legge in vita loro. E allora, perché continuiamo a considerarli dei criminali incalliti? Lo stesso vale per i loro ascoltatori, soprattutto i più giovani. Ogni fatto di cronaca, ormai, viene esaminato e amplificato sotto la lente della musica che ascoltano gli imputati. Nulla di nuovo, sia chiaro: anni fa, ai tempi delle Bestie di Satana, a essere demonizzato era il metal. Ma devo ammettere che fa un certo effetto leggere articoli o ascoltare disamine di giornalisti che, di fronte a un fatto sanguinario e sconcertante come la strage di Paderno Dugnano, si sentono in dovere di commentare “e dire che l’assassino diciassettenne non ascoltava neppure la trap, ma i Beatles”. Come se essere fan della trap sia un chiaro indizio di devianza, mentre ascoltare i Beatles una garanzia di solidi valori. Ed è altrettanto desolante leggere i commenti sui profili social di Izi, improvvisamente preso d’assalto da moralizzatori dell’ultim’ora che lo accusano di avere collaborato con un killer. Moussa Sangare, l’assassino di Sharon Verzeni, una decina d’anni fa aveva tentato una carriera nella musica con lo pseudonimo di Moses Sangare, e aveva cantato il ritornello del brano di un esordiente Izi, oltre a frequentare buona parte della scena di allora. I quotidiani si sono riempiti di foto di gruppo d’epoca, in cui Sangare sorride al fianco di ragazzi che sono poi diventati gli artisti di punta della loro generazione: lo stesso Izi, Ghali, Tedua, Ernia. Ma nessuno sembra in grado di demistificare, ovvero di spiegare ai lettori che, se lo stesso identico omicidio fosse avvenuto nell’Ottocento ad opera di un identico aspirante musicista, probabilmente costui avrebbe tentato di sfondare nella musica lirica e avrebbe bazzicato l’ambiente di Puccini e Verdi. Questo vuol dire che la musica lirica incita alla violenza? Evidentemente no, si tratta semplicemente del genere che andava più di moda in quel periodo. Non è che tutti i giovani criminali di oggi ascoltano trap: è che tutti i giovani italiani di oggi ascoltano trap, compresi i (pochi, per fortuna) criminali.