La fauna, se non altro, è singolare. Siamo accerchiati da ragazzi e ragazze comunemente (superficialmente?) assoggettabili a quel fritto misto ideologico che è detta "estetica alternativa". Accanto a loro alcune mamme, che non hanno l’occhio abbattuto di quando accompagni il pupo al concerto di Tony Effe, ma una certa reattività nello sguardo, come a dire non sono qui sotto minaccia; e ancora ci attorniano alcuni trentenni composti e garbati che il tempo di scrollarsi la sciarpa dal collo nel trambusto dell’entrata e sono già stretti agli angoli del locale: sono quelli che sopravvivono alla calca, che si slinguazzano con certa posa, mai triste, mai volgare. Siamo alla prima data barese di Marco Castello: di fronte a noi un vero e proprio calderone etico, estetico, ideologico, in altre parole generazionale, è pronto a dimenarsi per il primo dei tre set di un’ora che il cantautore siciliano si è condannato a portare a termine.
Non che si tratti proprio di una condanna per Castello, che sornione ha puntualizzato in alcuni commenti di non star lavorando in miniera: cantare e suonare è il lavoro più bello del mondo e, verrebbe automatico aggiungere a questo punto, viviamo nel migliore dei mondi possibili. Ma a pelle la sensazione corrotta, anticipata, violata dal pregiudizio, di stare per assistere a una forma di esercizio o compitino ci sfiora la mente. Tre set: uno alle 19, uno alle 21, uno alle 23. Ottimo materiale per i mematori dell’instagram che ne hanno intelligentemente approfittato nelle ultime settimane. Ma la vera domanda da porsi allontanando le questioni logistiche è: da dove spunta fuori questo giovane uomo capace di mandare sold out tre set in una città notoriamente poco reattiva alla musica che ancora si classifica come alternativa, ovvero Bari? Quanto accade nella successiva ora ci conferma ciò che già sospettavamo: Marco Castello, oltre che essere un paraculo di prim’ordine, è un grande musicista. Ci sorprende un dettaglio del suo set: la voce. Ma non si tratta della sua. Si tratta della voce omogenea di questo magma generazionale che non solo compra il biglietto e conosce le parole, ma canta pure i fill strumentali dove Castello, solo con una chitarra e una loop station, non riesce ad arrivare. È il caso di "Dracme", il cui incipit sincopato di tastiere viene cantato con dubbio tempo ma indubbio cuore dall’intero pubblico mentre il cantante si leva il maglione: Castello intona il riff introduttivo con la voce, e attacca. Muove le spalle come il George Benson disteso e pattinante nel video di "Give Me the Night", ne sembra quasi avveduto. Ci fermiamo e meditiamo trasognati mentre il siciliano, sveltissimo eppure a suo modo accogliente, corre da un brano all’altro ben consapevole (lo ammette) che il tempo insomma è quello che è.
Ma la grande novità di Marco Castello è data proprio dal suo pubblico. La sua musica, un intelligentissimo e certosino pop strattonato verso la strada meno battuta da arrangiamenti funk, soul, R&B, latin e da certe soluzioni armoniche jazzistiche, è un appiglio per riflettere sul miracolo che è agguantare una fetta di pubblico talmente variegata nell’Italia del 2024. Non ricordiamo infatti fenomeni recenti che fossero capaci di fagocitare tutto, in una morsa onnicomprensiva di sicilianità e savoir faire di chi sa stare al mondo (complice la gavetta decennale con Erlend Øye), tutto il possibile antropologico e musicalmente distante: dal lascivo in cuor suo ascoltatore di indie (è ancora una cosa?) al jazzista con la coppola in capa, dal noioso ma certo più felice di noi amante del pop da classifica allo snob musicalmente democristiano (la categoria cui ci ascriviamo). Ciò che stupisce, in fondo, non è altro che l’attestazione di una qualche forma di collettività che permane, che sia capace di riunire sotto l’egida di un pop certosino le varie schegge impazzite di un’Italia spaccata. Anche al costo di uscire dal set con la sensazione di aver assistito a una schitarrata informale, e non tanto a un concerto.