La porta di accesso al Nepal è Kathmandu, una città che non si lascia spiegare ma solo attraversare. È polverosa e luminosa, caotica e silenziosa, contraddittoria come lo sono le verità più profonde. È qui che comincia il viaggio, tra mucche che dormono al centro della strada e templi che resistono ai secoli, tra scimmie curiose e bambini che giocano accanto a rovine sacre. Il traffico non ha regole apparenti, ma segue un’armonia misteriosa, fatta di clacson, istinto e rassegnazione. Kathmandu è il biglietto da visita di un Paese che ti guarda dritto negli occhi senza bisogno di parole. Una città che non ha paura di mostrarsi con le sue cicatrici, dove tutto sembra precario ma niente si spezza davvero. È qui che ho imparato che la lentezza è un valore, la spiritualità non è un concetto astratto e che esiste una differenza radicale tra essere liberi e sentirsi tali. Ogni mattina, nel cuore di Durbar Square, una folla si raccoglie sotto una finestra intagliata nel legno scuro. Da lì, si affaccia per pochi secondi una bambina: la Kumari, la dea vivente. Non può camminare da sola, non può ridere in pubblico, non può piangere. Scelta tra centinaia per la sua purezza e bellezza, è adorata finché non compare il primo sangue mestruale. A quel punto, smette di essere divina. E ritorna – o forse entra per la prima volta – nella vita reale. Ma chi può davvero tornare alla normalità dopo essere stata una divinità in carne e ossa? La Kumari non è una leggenda. Esiste, vive rinchiusa nel suo palazzo con l’assistenza di servitori e sacerdoti, e può uscire solo tredici volte all’anno. I suoi piedi non devono mai toccare la terra. La si vede impassibile, truccata, vestita di rosso, lo sguardo carico di una forza che inquieta. In quel volto dipinto ho visto tutta la sacralità, ma anche il paradosso della libertà negata in nome della fede. E mi sono chiesta: cosa succede dopo, quando torna a essere solo una bambina?


Il Nepal è pieno di simboli così: potenti, ambigui, ancestrali. È il Paese delle divinità gentili e dei rituali crudi. Per secoli, in alcune aree, è esistita anche la pratica del satī, l’immolazione volontaria – o imposta – della vedova sulla pira del marito. Oggi è vietata, da più di un secolo, ma resta una ferita culturale difficile da cancellare. Il tempio di Guhyeshwari, dedicato a Parvati, ne conserva la memoria nei suoi riti e nella sua energia. La spiritualità, qui, non è mai innocente: è intrecciata con la storia, con il potere, con la donna. Eppure, nonostante tutto questo, il Nepal è anche il Paese dove ho sentito più forte il senso della presenza. Dove la religione non è una scelta ma una condizione dell’essere. Dove i gesti più piccoli – girare una ruota della preghiera, accendere una candela, toccare con la fronte un gradino sacro – contengono mondi. Non c’è fretta, non c’è ambizione sfrenata, ma c’è dignità. Qui anche la povertà ha un suo ordine. Il disordine è solo apparente. La vera anarchia è altrove, nei Paesi dove abbiamo tutto ma non crediamo più in nulla. E forse è proprio da qui che parte la riflessione più difficile, anche per me che di lavoro studio e racconto la comunicazione: quanto siamo disposti a metterci in ascolto? In un mondo in cui ogni brand, ogni individuo, ogni azienda urla per essere visibile, il Nepal mi ha ricordato il potere del silenzio. Della sottrazione. Della ritualità. Mi ha ricordato che il messaggio più potente non è sempre quello più rumoroso, ma quello che vibra in profondità, con coerenza, pazienza e senso. Chi comunica oggi dovrebbe imparare anche a tacere. A non colonizzare ogni spazio. A lasciare che siano gli altri, talvolta, a trovarci. Come si fa con la Kumari: si attende in silenzio, e poi si guarda. Senza fotografare. Senza condividere. Solo guardare. E capire.

