Deve essere assai difficile vivere una qualsiasi esperienza sapendo che la gente si aspetta molto da te. Quasi che, per il tuo essere poco inquadrabile, essere naif, o quello che tecnicamente si potrebbe definire essere un outsider, o forse semplicemente una novità, toccasse proprio a te stupire in un contesto dove lo stupore è stato messo al bando ormai una vita fa, e dove quello che viene spacciato per stupente è spesso e volentieri solo l’omologazione impacchettata meglio, show business e basta. Succede, infatti, che per il solo fatto di apparire eccentrico, e aver fatto un percorso artistico riconosciuto come tale dalla comunità musicale e da un pubblico che col contesto squisitamente mainstream potrebbe anche avere pochi punti in contatto, di colpo tutti si sentano in diritto di pensarti “strano”, ignorando che in fondo i punti che ti legano a una tradizione che si possa definire tale sono assi di più di quelli che al momento sono riconoscibili a prima vista. Che poi, diciamolo, sul fatto della riconoscibilità dai parecchi giri a tutti, non fosse altro per quel tuo non essere necessariamente alla moda, o nel tuo essere alla moda, sì, ma di un’altra epoca, forse anche una moda futura. Questo quello che sto pensando mentre mi dirigo in auto, e la parola auto ha un peso specifico alto in quel che scrivo, anche se forse avrei dovuto chiamarla macchina, giocando certo su una qualche ambiguità poi disinnescata, questo quello che sto pensando mentre mi dirigo in auto verso la trattoria Ambrosiana dalle parti di Niguarda nord nella quale Lucio Corsi, è lui il “tu” a cui stavo pensando, incontra la stampa in vista del prossimo Festival della Canzone Italiana di Sanremo, nella quale è in gara con la canzone dal titolo: Volevo essere un duro, titolo che non verrà mai menzionato, tanto poco è l’interesse per la promozione dura e pura, figuriamoci per la gara. E questo è quello che sto pensando mentre mi dirigo in auto verso la trattoria Ambrosiana di Niguarda nord eccetera eccetera, trattoria dove per altro Lucio Corsi è solito andare a mangiare, perché sto provando a immaginarmi quel che succederà in quel posto, lui, Lucio Corsi, cantautore eccellente che si affaccia alla ribalta nazionalpopolare dopo averci regalato una manciata di album bellissimi e stralunati, la parola stralunato, al pari della parola auto e della parola macchina sta qui con un senso preciso, e aver incontrato una qualche popolarità, questa parola invece fa la sua comparsa qui, ma dubito tornerà in scena, grazie a una serie tv di cui molto si è parlato anche e proprio per questa particolarità, Vita da Carlo 3, di e con Carlo Verdone, non esattamente un blockbuster essendo visibile su Paramount. Serie, questa, nella quale Verdone, nella finzione, si trova a essere direttore artistico del Festival, un Carlo al posto di un altro Carlo, Conti, e decide di invitare questo bravissimo e stralunato e eccellente cantautore, Lucio Corsi. Una sorta di autofiction, Vita da Carlo, che nello specifico invece che raccontare eventi reali e verosimili accaduti al regista e attore romano, aprono la strada a qualcosa di profetico, in odor di preveggenza, perché in effetti l’altro Carlo, Conti, ha annunciato che lui, Lucio Corsi, è in gara al Festival numero settantacinque, leggete la lista, ecco che il nome di Lucio Corsi è in effetti lì, tra i trenta cantanti in gara, esattamente come nella finzione. Leggere, a caldo, i commenti di chi ha pensato a una qualche operazione complottistica, come di chi addirittura ha guardato al tutto come a una sorta di joint venture tra Paramount e Rai, ovviamente, rientra in quella visione lisergica del mondo che per qualche settimana, nonostante le guerre, i cambiamenti climatici, le pandemie e quel che ci devasta la quotidianità, Sanremo ci offre. Mondo bizzarro nel quale Lucio Corsi ha deciso di immergersi, non perdendo un microgrammo della sua leggerezza, della sua originalità, e anche della sua stralunatezza, ci dirà infatti di non essere interessato alla gara, e ci sta, che sul palco suonerà, e qui siamo nella meraviglia, e che suonerà sia il piano che la chitarra, e dalla meraviglia passiamo allo stupore stendhaliano, e che si vestirà per conto suo, senza stylist, perché non è interessato alla moda, e tante altre cose. Ce lo dirà dopo, però. Perché sono in macchina. Arrivo. Parcheggio, e smetto di congetturare. Anche perché parcheggiare a Niguarda nord è impresa degna di un supereroe, o di un bandito, e temo di non rientrare in nessuna delle due categorie, per cui ci impiego quasi lo stesso immenso tempo che ci ho messo per arrivare fin qui.
Niguarda è un quartiere di Milano, lo dice uno che è arrivato a Milano ventottenne ventotto anni fa, fate voi le vostre considerazioni, famoso per due specifici motivi: perché c’è uno degli ospedali più noti della città, e in quanto ospedali più noti di Milano anche più noti d’Italia, a lungo Milano è stata meta di pellegrinaggi speranzosi da tutta Italia, prima che chi era a guida della regione decidesse in combutta con chi era al governo di smantellare la sanità pubblica, e perché ogni santa volta che piove, o che piove un minimo più del solito, si allaga, spingendo addirittura parte della cittadinanza locale a ricorrere a strane paratie tipo Mosa da porre di fronte agli ingressi, in cantina ci si tiene giusto qualcosa riposto in alto, perché Mosa o non Mosa si allaga comunque tutto, vedi tu cosa succede a interrare un fiume per far largo al cemento. Niguarda è anche il quartiere nel quale, vai poi a capire perché, Lucio Corsi ha deciso di vivere parte della sua vita, lui nato in Maremma, tra la campagna e il sogno, e in Maremma cresciuto. Per dirla con parole sue, non spese oggi, prima viveva circondato da animali, poi ha cominciato a vivere circondato da altri animali, di metallo, le auto, animali che la sera lasci in un posto e l’indomani trovi indomite nel medesimo posto, a volte. Incontrarlo in trattoria, lui che è di una famiglia di ristoratori, dal 1959, ci tiene a precisare, per una volta concreto, quasi tutte donne a gestire il ristorante di famiglia, è una scelta coerente, come sarebbe potuto esserlo vedersi in una sala prove, di fronte a strumenti che lui, Lucio Corsi, avrebbe potuto suonare, caratteristica questa che, in compagnia di pochi altri elementi, lo distingue da buona parte del cast di Sanermo 2025, settantacinquesima edizione del Festival. Un eccentrico, questo è come Lucio Corsi verrà venduto al pubblico bulgaro (parlo di percentuali share) del primo Festival del secondo corso contiano, un Giovanni Truppi senza canottiera ma col viso dipinto di bianco e il cappello da cowboy sui lunghi capelli lisci. E dire che la sua musica, eccellente, eccentrica non è, con tutti quei riferimenti a certo nostro cantautorato, a certo rock’n’roll d’oltremanica, un decennio, gli anni Settanta, decennio nel quale ovviamente non era nato, Lucio Corsi è un classe 1993, trentadue anni da compiere addirittura a ottobre, ben chiaro di fronte agli occhi. La canzone di Lucio, ci ha detto Lucio, è una canzone che prelude a un cambiamento, nella chiacchierata fatta ha sia sottolineato l’importanza di non fare sempre le stesse cose, per non annoiarsi, sia esaltato il concetto di noia tipica della provincia, perché annoiandosi, appunto, si fanno cose, lui da piccolo ha imparato a suonare, per dire, la canzone di Lucio, quindi, Volevo essere un duro il titolo, parla di come a volte non si è e non si diventa quel che si sarebbe voluti essere o diventare, e non necessariamente è un peccato. Un nuovo sguardo sulle storie delle persone, questo sarà il mood del nuovo album di nove canzoni, in preparazione per dopo il Festival, lui che prima si è lasciato ispirare dalla natura, dal tempo, dal vento. Anche sull’ispirazione ha detto cose, Lucio Corsi, non esaltanti, dicendo che per scrivere tocca stare davanti a uno strumento, così fa lui, e buttare giù idee. Idee che non vengono mai buttate, anche se in apparenza non buone, perché poi un giorno magari serviranno in una determinata canzone. Questa, di canzone, finita in gara a Sanremo, parla di essere altro da quel che si sarebbe voluto, e parla di durezza, perché essere duri sembra un’ambizione cui ambire, anche se poi dice, di nuovo la natura, i fiori sono bellissimi e fortissimi, in grado di reggere alle folate di vento, ancora natura, ma hanno un gambo sottilissimo e in apparenza fragile. Lucio Corsi, signori miei. Un visionario, che dice di essere voluto andare a Sanremo perché di lì sono passati tanti suoi idoli, e cita Rino Gaetano, Ivan Graziani di Maledette malelingue, Lucio Dalla, ma anche Vasco Rossi col microfono in tasca e Peter Gabriel che si lancia con una liana sul pubblico, cantava Shock the monkey, salvo poi andare a sbattere con la schiena una volta tornato sul palco. Dice anche che è bello star lì a suonare, inconsapevole, forse, che in pochi lo faranno. Dice che la vede come un’esperienza, un passaggio, non come l’arrivare in vetta, ma come un passo per arrivarci, dove per vetta intende la possibilità di stare sempre in tour, un Never ending Tour come Bob Dylan, dice. Cita anche tanti che ammira che a Sanremo non sono andati, da Franco Battiato, che in realtà c’è stato, ospite di Luca Madonia, e Paolo Conte, e dice di ambire a quello, a fare una musica che non sia ancorata all’attualità, e che quindi possa essere ascoltata da chi vivrà nel futuro, ma anche di chi è vissuto nel passato. E c’è da credergli, quando dice che non vorrebbe mai deludere chi viveva nel passato e volesse ascoltare la sua musica, c’è da credergli perché è un artista e agli artisti dobbiamo credere da contratto, perché guardandoli ci affidiamo a loro senza reticenza, senza opporre resistenze, ci fidiamo, appunto. Da suo ammiratore, confesso, sono incuriosito come impaurito di come un tritacarne (lui dice frullatore) come Sanremo lo tratterà, ma per dirla con parole sue: “Sono curioso di vedere se riuscirò a schivare le lame del frullatore, o se invece riuscirò a sopravvivere una volta fatto a pezzi”. Di sicuro dovremmo tutti volergli bene, per aver deciso di andarci, e parlo di chi segue il Festival, ovviamente, come spettatore, ma anche di chi, come me, lo segue per lavoro. Perché Lucio Corsi porta bellezza e leggerezza, e la porta con le sue canzoni ma anche col suo essere così sghembo in un mondo fatto tutto di righe dritte.