Franco 126 è arrivato a Bologna. Al Sequoie Music Park con Futuri Possibili. Con un album incredibile, l’ultimo, ha fatto sognare i ragazzi, tanti, tantissimi, presenti, tra innamorati persi sotto palco, e gente sola e serena, uniti tutti dalla voglia di non pensare ma solo di farsi portare via da “Stanza Singola” o “Scacciapensieri”. Il concerto è iniziato in orario. Sotto al palco, masse e flotte di regaz bolognesi e non. Presi bene. Con una birretta in mano e nell'altra la leggerezza rubata sul posto. Franco arriva, porta avanti uno sketch con un pupazzo, canta. E si nasconde. Franco 126, di cui non conosciamo poi così bene gli occhi ma benissimo i suoi occhiali da sole, è spesso di spalle, si mostra a fasi alterne. Quando canta, guarda lontano, non verso di noi. Ed è strano, ma forse è proprio quello che dovevamo aspettarci. Dai testi – i suoi – verosimilmente scritti negli studi, ma che ci piace pensare siano partiti da un letto, in una camera, la sera, quando non si riesce a dormire. La forza di Franco 126 è questo. È essere semplice, reale, nostro. Vicino e lontano. Le canzoni, tutte molto simili tra loro, sembrano alla fine una sola riprodotta in loop dall’inizio alla fine. Una voce calma, calda, che avvolge Sequoie e pure noi, venuti lì per cantare a squarciagola “Ieri l’altro”, ma anche “Maledetto tempo” o “Ancora no”. E che vorremmo ascoltare all'infinito.

Canzoni tristi, dice spesso Franco sul palco. E sì, tristi lo sono, tante. Eppure, tra mille salse di soia, nuvole di drago e “Angelo”, le sue – più che canzoni disperate – sono desideri di restare umani a vent’anni, sorridendo in faccia alla malinconia, tra birrette e sigarette fumate in due su un terrazzo a guardare la vita correre. Una scaletta che ha concentrato le canzoni più desolanti assieme, poi espiate, esorcizzate dal finale, dopo l’intermezzo di Neffa, ospite speciale della serata, che ha esortato la gente a votare. Per non dire “stop alla guerra” solo tra di noi, ma farlo sapere a chi ci governa. E poi le hit, senza Coez e Giorgio Poi o Calcutta. Cantate da noi, tra la folla, per colmare quelle mancanze. Alla fine, quello che ci resterà di questa notte, di tutti gli estranei che abbiamo visto, è la voglia di umanità e di dimenticare tutto quello che si sopporta nei giorni normali per lasciarsi andare solo a Franchino. Alle sue canzoni. Per svegliarsi il giorno dopo, una domenica mattina, e ricordare chi siamo stati sognando chi saremo domani, con il sapore dolceamaro degli amori che non sono riusciti a sopravvivere al tempo, con i capelli scompigliati della sera prima. E fregarsene di tutto il resto.
