Nel panorama editoriale italiano in cui il calcio viene spesso ridotto a nostalgia patinata o saggismo retorico, L’estate di Totò Schillaci di Pippo Russo arriva come una rasoiata. Non è un romanzo calcistico, né un’autobiografia mascherata da saggio, e nemmeno un’ode alla Palermo che fu. È un’indagine identitaria spietata, un racconto che fa a pezzi la memoria collettiva e la ricompone con la crudezza della vita vissuta. Russo affonda la penna nel tessuto urbano e umano della Palermo tra gli anni Ottanta e Novanta, e lo fa con un tono che unisce l’intimità del testimone al cinismo dello studioso. La figura di Schillaci diventa totem e tabù, un’allucinazione collettiva e al tempo stesso una vendetta storica. “L’ennesimo palermitano costretto a guadagnarsi la gloria in esilio”: il romanzo comincia da lì, da quella condanna geografica e culturale che costringe il talento a emigrare, mentre la città osserva, giudica e poi reclama. Russo non mitizza Totò, lo bracca: ne osserva la traiettoria rapida, quasi ultraterrena: “Un uomo che in una sola stagione viene su quasi dal nulla, diventa il più forte al mondo per alcune settimane e poi con la stessa rapidità si inabissa.”

Il libro è stratificato, a tratti quasi crudelmente analitico. Mette in scena un’intera generazione che ha creduto per un’estate – quella delle Notti Magiche del 1990 – che il riscatto fosse possibile. Ma lo fa rovesciando l’epica: la gloria non è un punto di arrivo, è un accidente che dura poco e lascia addosso soltanto più solitudine. Schillaci, da questo punto di vista, è un personaggio pirandelliano: appare, incanta, poi svanisce. “Ancora una volta Totò si sottrae. Insiste a materializzarsi così, come un flash. Lo vedi e ti acceca, credi di averlo catturato e invece è già fuggito via.” La narrazione segue questo ritmo disilluso: i flashback del 1990 si alternano al grigiore pandemico del 2020, in un confronto spietato tra ciò che è stato promesso e ciò che è stato tradito. Nel racconto si apre uno squarcio sulla Palermo di fine anni Ottanta, un momento in cui la città sembra respirare un’aria nuova, sospesa tra la lotta ai veleni della mafia e una speranza di cambiamento che si concretizza nelle occupazioni universitarie guidate dal movimento della Pantera e nelle battaglie politiche di Leoluca Orlando, il sindaco “eretico” che tenta di scardinare i gattopardi al potere. Questa cornice storica non è un mero sfondo, ma una parte integrante della narrazione, che mette in risalto l’eterna tensione tra la voglia di riscatto e la realtà di un declino culturale e sociale che avvolge la città e, per estensione, l’Italia intera.Palermo diventa corpo e spettro: odorosa, sudicia, teatrale, feroce. Russo la racconta con gli occhi di chi non ci è nato ma l’ha scelta come ossessione. È questa distanza – lucida e affettiva – a rendere il suo sguardo tanto affilato.

Ma non è tutto. Il libro è anche un j’accuse. C’è un’intera pagina in cui Russo rovescia su Palermo una verità mai detta fino in fondo: che Schillaci non è mai stato davvero accolto, che la sua gloria è stata prima ignorata, poi sospettata, infine sminuita. “Ma dimmi piuttosto se lo avete mai considerato davvero un vostro concittadino… lo osservavate con degnazione… poi lo avete detestato quando vi ha fatto gol in Serie C… e in quel primo anno di Juventus in cui sorprendeva tutti, continuavate a guardarlo con diffidenza.” Il tono è feroce, quasi vendicativo. Russo non concede nulla alla città, ma nemmeno al lettore: ogni episodio familiare, ogni ritorno al padre silenzioso, ogni pallone calciato da ragazzini tra le auto in corsa, è un’occasione per forzare la memoria e trasformarla in materia di riflessione politica. L’identità siciliana, il disincanto postideologico, la periferia della Storia che ogni tanto si illude di contare: questo è il cuore del libro, e non ha niente di nostalgico. Semmai, è un trattato romanzato sulla delusione.

L’estate di Totò Schillaci è anche una critica implicita al modo in cui si costruisce il mito nel Sud d’Italia: in fretta, male, e spesso a spese dell’eroe. Russo non perdona Palermo, ma non assolve nemmeno Totò. La parabola dell’attaccante diventato leggenda e poi oggetto smarrito non è solo metafora: è autopsia culturale. La scrittura è incalzante, piena di digressioni e ritratti secondari indimenticabili – il barista, il gommista, la signora che si scandalizza per una tuta sporca. La città si muove in fondo alla storia come un coro tragico, beffardo e incattivito. E quando tutto sembra sfuggire, resta solo l’interrogativo: “Forse non è nemmeno mai stato lì”. Allora capiamo che Totò Schillaci, in questo romanzo, è un miraggio. Una visione collettiva che ci ha illuso di poter diventare altro – e che invece ci ha lasciati esattamente dove eravamo. Nel pieno di un’estate, già all’inizio del nostro autunno.